L'analisi
Il lato oscuro del futuro: a cosa serve davvero il reddito di cittadinanza
La prima desertificazione non sarà quella del clima ma quella del lavoro. In un periodo di tempo compreso tra 20 e 50 anni spariranno i cassieri, i tassisti, i piloti degli aerei, i corrieri, i tecnici cartografici, i lettori di contatori, tutti sostituiti dagli omologhi digitali
apita sempre più spesso di entrare in un bar, consumare, avvicinarsi alla cassa per pagare. E lì scoprire che bisogna far tutto da soli, infilando i denari in una macchina automatica che, senza margine di errore, vi restituirà resto e scontrino. Di solito, c’è qualcuno del personale che vi spiega come fare. Osservatelo con attenzione e scoprirete lo sguardo sconfitto di chi, cliente dopo cliente, sta firmando la propria condanna alla disoccupazione. Perché, infondo, è lì per illustrarvi come fare a meno di lui.
Benvenuti nel futuro, un futuro in cui la prima desertificazione non sarà quella del clima ma quella del lavoro. In un periodo di tempo compreso tra 20 e 50 anni spariranno i cassieri, i tassisti, i piloti degli aerei, i corrieri, i tecnici cartografici, i lettori di contatori, tutti sostituiti dagli omologhi digitali. Ma c’è aria di armageddon anche per gli impiegati delle tavole calde, gli arbitri, i controllori del traffico aereo, gli interpreti, i casellanti. Nemmeno gli attori sono al sicuro se è vero che la creazione di film al computer sarà presto molto più veloce ed economica del vecchio ciak con star bizzose e strapagate.
Di fatto un’estinzione di massa, nuova ma non inedita. L’economista viennese Karl Polanyi ne aveva trattato a lungo nel suo celebre volume La grande trasformazione (1944), rilevando, nell’Inghilterra di fine Settecento, il sorprendente apparire «di una massa enorme di persone più simili a spettri che ad esseri umani», un esercito di «indescrivibili animali del fango» che si trascinava per l’intera nazione mendicando sussidi e migliorie. Un fatto inaudito, per l’epoca, che nessuna delle ragioni contingenti - dalla scarsità del grano al diffondersi del consumo di droghe - riusciva a motivare. Per approdare all’origine del mistero, Polanyi si lancia così in una analitica ricostruzione della legislazione proto-lavoristica del tempo, trascinando lo sventurato lettore in pagine e pagine di bizantinismi e speculazioni socio-giuridiche.
Ma proprio quando quest’ultimo - ormai mostruosamente annoiato - si avvia ad abbandonare ogni speranza di giungere ad epilogo comprensibile, ecco Polanyi enunciare la soluzione in modo fulminante: il problema risiederebbe nel rapporto fra «pauperismo e progresso». Più cioè la società va avanti, evolve, innova, si urbanizza e genera ricchezza - in una parola «progredisce» - più aumentano i poveri. Non sarà sfuggito che l’Inghilterra di cui discute è quella che aveva consegnato al mondo il miracolo compiuto della rivoluzione industriale, della macchina al servizio dell’uomo e delle rotte commerciali moltiplicate. Ma insieme a tanta opulenza, Londra aveva inaugurato anche un’altra cosa, altrettanto sconosciuta: la povertà di massa. «Niente - scrive Polanyi - salvò il popolo inglese dalla rivoluzione industriale. Una fede cieca nel progresso spontaneo si era impadronita della mentalità generale e gli effetti sulla vita della gente erano tremendi al di là di ogni descrizione».
Qualche numero illuminante lo fornisce anche Alexis de Tocqueville (Il pauperismo, 1835): nell’Inghilterra di quel periodo c’era un povero ogni sei abitanti, negli Stati all’alba del processo industriale, o ancora esclusi da esso, il rapporto scendeva a 1 su 20 per precipitare, in alcuni casi, a 1 su 58. Morale della favola: ogni volta che la società economica scuote il suo corpaccione milioni di persone vengono sbalzate fuori da un mondo in cui, fino al giorno prima, riuscivano ad arrangiarsi. È il prezzo delle «rivoluzioni industriali», del progresso scientifico e tecnologico: una fiera delle meraviglie nella catastrofe sociale.
La stagione che stiamo attraversando, appunto la quarta rivoluzione industriale, come da definizione di Klaus Schwab, presidente del World economic forum, non costituisce eccezione. Ma conferma la regola. Di fatto, la digitalizzazione ci ha precipitati in un mondo in cui il processo realizzativo è interamente delegato alla macchine mentre l’uomo è chiamato a evolvere da manodopera in «testadopera» cioè creatore e controllore di processi interamente sottratti alla sua manualità. Di fronte a questa prospettiva gli atteggiamenti sono due. Anzi tre. C’è l’entusiasta che saluta la rivoluzione nascente senza capirne i rischi; c’è il collega, altrettanto gaudente, che i rischi li capisce benissimo ma è convinto che un portiere d’albergo con la terza media possa riconvertirsi a programmatore della Silicon Valley con un master online di un paio d’ore. E, infine, c’è quello che minimizza, affermando, con grande sicumera, che, come sempre nella storia, l’umanità alla fine si troverà la quadra.
Insomma, da qualunque lato la si prenda siamo nelle mani del «cretino globale» che, di solito, è un garantito al riparo da tutti gli effetti collaterali del progresso. Né, d’altra parte, vale di più l’esempio dei luddisti, i Ribelli al futuro come da meraviglioso titolo di un saggio dell’ecologista americano Kirkpatrick Sale: Ned Ludd e i suoi, figure quasi leggendarie a ricalco del mito di Robin Hood, sfidarono il progresso nella solita Inghilterra di fine ‘700 distruggendo i telai meccanici che sottraevano vita e lavoro alle maestranze del tempo. A parte solleticare la fantasia dei romantici non ottennero molto. In verità, non ottennero nulla. Perché il progresso, dirlo è fin troppo banale, non si ferma con pietre e forconi. Quello che si può fare, invece, consci dell’ecatombe in arrivo, è predisporre delle reti di salvataggio sociale per quanti dovessero rimanere fuori dai nuovi schemi.
Il reddito di cittadinanza, per dirne una, serve a questo. E a nient’altro. Non è un intrattieni per agevolare la ricerca del lavoro e nemmeno un incoraggiamento a vegetare sul divano di casa. Non c’entrano nulla le agenzie per l’impiego, i navigator e tutte le «corruzioni» del provvedimento originario messe in campo nel 2018 per farlo ingoiare ai leghisti in fregola di efficientismo nordista (lavoro, pago, produco, pretendo). Semplicemente, con tutte le falle e le storture del caso, l’erogazione di un paracadute pubblico resta l’unico modo per assorbire il contraccolpo della «rivoluzione» in cui siamo immersi. E in cui stiamo affogando senza nemmeno accorgercene. È già successo e rischia di succedere ancora.
Benvenuti nel futuro, un futuro in cui la prima desertificazione non sarà quella del clima ma quella del lavoro. In un periodo di tempo compreso tra 20 e 50 anni spariranno i cassieri, i tassisti, i piloti degli aerei, i corrieri, i tecnici cartografici, i lettori di contatori, tutti sostituiti dagli omologhi digitali. Ma c’è aria di armageddon anche per gli impiegati delle tavole calde, gli arbitri, i controllori del traffico aereo, gli interpreti, i casellanti. Nemmeno gli attori sono al sicuro se è vero che la creazione di film al computer sarà presto molto più veloce ed economica del vecchio ciak con star bizzose e strapagate.
Di fatto un’estinzione di massa, nuova ma non inedita. L’economista viennese Karl Polanyi ne aveva trattato a lungo nel suo celebre volume La grande trasformazione (1944), rilevando, nell’Inghilterra di fine Settecento, il sorprendente apparire «di una massa enorme di persone più simili a spettri che ad esseri umani», un esercito di «indescrivibili animali del fango» che si trascinava per l’intera nazione mendicando sussidi e migliorie. Un fatto inaudito, per l’epoca, che nessuna delle ragioni contingenti - dalla scarsità del grano al diffondersi del consumo di droghe - riusciva a motivare. Per approdare all’origine del mistero, Polanyi si lancia così in una analitica ricostruzione della legislazione proto-lavoristica del tempo, trascinando lo sventurato lettore in pagine e pagine di bizantinismi e speculazioni socio-giuridiche.
Ma proprio quando quest’ultimo - ormai mostruosamente annoiato - si avvia ad abbandonare ogni speranza di giungere ad epilogo comprensibile, ecco Polanyi enunciare la soluzione in modo fulminante: il problema risiederebbe nel rapporto fra «pauperismo e progresso». Più cioè la società va avanti, evolve, innova, si urbanizza e genera ricchezza - in una parola «progredisce» - più aumentano i poveri. Non sarà sfuggito che l’Inghilterra di cui discute è quella che aveva consegnato al mondo il miracolo compiuto della rivoluzione industriale, della macchina al servizio dell’uomo e delle rotte commerciali moltiplicate. Ma insieme a tanta opulenza, Londra aveva inaugurato anche un’altra cosa, altrettanto sconosciuta: la povertà di massa. «Niente - scrive Polanyi - salvò il popolo inglese dalla rivoluzione industriale. Una fede cieca nel progresso spontaneo si era impadronita della mentalità generale e gli effetti sulla vita della gente erano tremendi al di là di ogni descrizione».
Qualche numero illuminante lo fornisce anche Alexis de Tocqueville (Il pauperismo, 1835): nell’Inghilterra di quel periodo c’era un povero ogni sei abitanti, negli Stati all’alba del processo industriale, o ancora esclusi da esso, il rapporto scendeva a 1 su 20 per precipitare, in alcuni casi, a 1 su 58. Morale della favola: ogni volta che la società economica scuote il suo corpaccione milioni di persone vengono sbalzate fuori da un mondo in cui, fino al giorno prima, riuscivano ad arrangiarsi. È il prezzo delle «rivoluzioni industriali», del progresso scientifico e tecnologico: una fiera delle meraviglie nella catastrofe sociale.
La stagione che stiamo attraversando, appunto la quarta rivoluzione industriale, come da definizione di Klaus Schwab, presidente del World economic forum, non costituisce eccezione. Ma conferma la regola. Di fatto, la digitalizzazione ci ha precipitati in un mondo in cui il processo realizzativo è interamente delegato alla macchine mentre l’uomo è chiamato a evolvere da manodopera in «testadopera» cioè creatore e controllore di processi interamente sottratti alla sua manualità. Di fronte a questa prospettiva gli atteggiamenti sono due. Anzi tre. C’è l’entusiasta che saluta la rivoluzione nascente senza capirne i rischi; c’è il collega, altrettanto gaudente, che i rischi li capisce benissimo ma è convinto che un portiere d’albergo con la terza media possa riconvertirsi a programmatore della Silicon Valley con un master online di un paio d’ore. E, infine, c’è quello che minimizza, affermando, con grande sicumera, che, come sempre nella storia, l’umanità alla fine si troverà la quadra.
Insomma, da qualunque lato la si prenda siamo nelle mani del «cretino globale» che, di solito, è un garantito al riparo da tutti gli effetti collaterali del progresso. Né, d’altra parte, vale di più l’esempio dei luddisti, i Ribelli al futuro come da meraviglioso titolo di un saggio dell’ecologista americano Kirkpatrick Sale: Ned Ludd e i suoi, figure quasi leggendarie a ricalco del mito di Robin Hood, sfidarono il progresso nella solita Inghilterra di fine ‘700 distruggendo i telai meccanici che sottraevano vita e lavoro alle maestranze del tempo. A parte solleticare la fantasia dei romantici non ottennero molto. In verità, non ottennero nulla. Perché il progresso, dirlo è fin troppo banale, non si ferma con pietre e forconi. Quello che si può fare, invece, consci dell’ecatombe in arrivo, è predisporre delle reti di salvataggio sociale per quanti dovessero rimanere fuori dai nuovi schemi.
Il reddito di cittadinanza, per dirne una, serve a questo. E a nient’altro. Non è un intrattieni per agevolare la ricerca del lavoro e nemmeno un incoraggiamento a vegetare sul divano di casa. Non c’entrano nulla le agenzie per l’impiego, i navigator e tutte le «corruzioni» del provvedimento originario messe in campo nel 2018 per farlo ingoiare ai leghisti in fregola di efficientismo nordista (lavoro, pago, produco, pretendo). Semplicemente, con tutte le falle e le storture del caso, l’erogazione di un paracadute pubblico resta l’unico modo per assorbire il contraccolpo della «rivoluzione» in cui siamo immersi. E in cui stiamo affogando senza nemmeno accorgercene. È già successo e rischia di succedere ancora.