L'amarcord
Addio a Scalfari: ricordi ed etica
Nelle opere la sua testimonianza
Ora che Eugenio Scalfari è morto ed è cominciata la fase in cui celebrare un uomo vuol dire rendere omaggio alla sua figura e a quanto il suo talento ha concesso all’epoca in cui egli è vissuto, diventa doveroso interrogarsi non soltanto sul maestro di giornalismo (su cui indubbiamente prevarranno opinioni e giudizi di valore difficilmente confutabili), ma anche sull’autore di libri, alcuni dei quali di impianto volutamente narrativo o pseudo-narrativo, consegnati alla posterità in un volume della prestigiosa collezione dei Meridiani Mondadori, edito dieci anni fa, nel 2012, con un titolo assai eloquente: «La passione dell’etica».
L’operazione di tralasciare il lavoro da giornalista, che pure è presente in questo libro, soprattutto nella prima parte, di per sé potrebbe apparire rischiosa, ma è proprio nel versante narrativo, assai più che in quello dell’opinionista, il luogo dove cercare il vero Scalfari e, con lui, l’autenticità della sua visione etica, diciamo anche filosofica (le pagine del Meridiano traboccano di pensiero più che di invenzione) e dunque anche politica. A noi lettori non è sfuggito la presenza di un’aspirazione nemmeno così latente e sempre pronunciata con voce piuttosto tonante, resa evidente alla presenza di nomi affascinanti attribuiti ai testi: La passione dell’etica, certo, ma pure Alla ricerca della morale perduta o, forse il più elevato nel corpo a corpo con la tradizione, Per l’alto mare aperto. C’era un messaggio che Scalfari intendeva manifestare chiamando in questo modo alcuni dei suoi libri? È una domanda che mi pongo sin dal loro apparire, nel 1995 (nel primo caso) e nel 2010 (nel secondo). E continuo a chiedermelo soprattutto ora, quando il dovere di commemorare non deve essere ricoperto dal velo delle emozioni o toccato dalla fretta di arrivare a giudizi definitivi.
Sicuramente Scalfari intendeva affidare alle sue opere pseudonarrative non solo lo statuto di una testimonianza – quella, per intenderci, che presiede Racconto autobiografico (2014) e che sarebbe stata per lui fin troppo semplice a realizzarsi – ma il piglio di una riflessione che non teme di nascondere le sue ambizioni totalizzanti: essere chiave di lettura di un’epoca, essere il ritratto morale di una generazione, la sua, affacciata alla Storia quando i vent’anni coincisero con la Seconda Guerra Mondiale e i trenta con il periodo della ricostruzione. Qui sta il vero nodo del discorso. Tutti i libri pseudonarrativi di Scalfari sono opere testimoniali. Rappresentano cioè quello che, con somma eleganza, Vittorini definiva «opere di stretta caratterizzazione autobiografica» e non mancava di farlo notare a un disorientato Mario Rigoni Stern (stiamo parlando di uno dei più importanti scrittori della stessa generazione di Scalfari) quando gli scriveva per lettera: «la storia letteraria non è fatta soltanto dai Dante Alighieri, ma anche dai Guinizzelli e Cavalcanti». Il che voleva intendere non soltanto che Rigoni difettasse nell’invenzione, ma anche che avrebbe trovato se stesso pensandosi nelle vesti di un comprimario.
Con Scalfari ci troviamo, invece, agli antipodi. La testimonianza di una parzialità, così come può essere la narrazione autobiografica, funziona nella misura in cui intorno alla vita dell’Io scorre la vita di una nazione, di un popolo, di una civiltà che, senza paura di passare per le vie della retorica, subisce e promuove il respiro di un’epica. Come fa Dante Alighieri, appunto. Scalfari, quando racconta, lo fa sempre in forma testimoniale, ma il suo punto di vista è quello di una parzialità che non riesce a diventare tutto, di un Io che non vuole e non sa diventare Noi e ciò in fondo determina la sensazione di un’occasione perduta. Certo ci sono pagine meravigliosamente allusive, come quella che, in Incontro con Io (1994), discende da una semplicissima parola – «Ricordi?» – scritta da Italo Calvino sulla copia di Se una notte d’inverno un viaggiatore a lui dedicata. Ma è l’assunto di una modernità licenziata troppo in fretta a suscitare qualche dubbio, la modernità di cui discute in Per l’alto mare aperto e che un paio di anni prima, in L’uomo che non credeva in Dio (2008), cade nella trappola pasoliniana dell’innocenza perduta quando descrive il Mezzogiorno.