IL COMMENTO
La superficialità è questione di punteggiatura
La comunicazione opinabile tra aggressore ed aggredito nella guerra Russia-Ucraina
«Tu vivi di superfici. Quando sembri profondo è perché ne incastri molte». Così Lia, la compagna di Casaubon, l’io narrante de Il Pendolo di Foucault, forse l’unico personaggio sano di tutto il secondo romanzo (per chi scrive il migliore) di Umberto Eco.
Nel leggere alcuni editoriali, ascoltando distratto qualche talk show - distratto a sufficienza da tenere a freno l’irritazione - seguendo alcuni torrenziali scambi social che non saranno mai sufficientemente grati al Putin-22 per essersi sostituito senza soluzione di continuità al Covid-19, m’imbatto in mutue accuse di superficialità, di rifiuto miope e demente dell’inerente complessità della situazione. Va da sé, ognuno rinfaccia all’opinione altrui – sovente all’altrui, indipendentemente dall’opinione – l’assenza di quella necessaria profondità e complessità sine qua non. Ma non vorrei cavarmela troppo facilmente, la critica al chiacchiericcio social è diventato a sua volta un genere fin troppo frequentato. Di più. Non prendere, nel senso di chiarire la mia posizione rispetto a cosa stia succedendo al confine tra Russia e Ucraina, pur volendomi concentrare su alcune dinamiche prevalentemente comunicative, mi sembrerebbe speculare a quelle furbizie «né… né…» con le quali ci si prepara ad avere comunque ragione, ex post. E quindi. Sono tra quelli che, inseguendo con colpevole ritardo le necessarie analisi geopolitiche senza le quali è difficile anche solo orientarsi, pure rimane convinto che c’è stata un’aggressione: con un aggressore, russo, e un aggredito, ucraino. Punto, ovviamente il mio.
Ciò doverosamente premesso, cos’è che colpisce di alcune di quelle dinamiche comunicative cui mi riferivo? Prendo ad esempio una delle più sviluppate e conseguentemente discusse. Il ragionamento fila più o meno così: c’è stata un’aggressione, ma si sarebbe potuto evitarla se ci fossimo astenuti dal perseguire alcuni obiettivi strategici: «Se avessimo pensato…», «Se non avessimo fatto…». Noi e Lui/Loro. Il «noi» essendo l’Occidente in genere, gli Stati Uniti comunque, l’Europa, semmai ci fosse; Lui/Loro nella fattispecie di Vladimir Putin, della Russia, domani la Cina: «Se noi avessimo o non avessimo…», lui non avrebbe fatto/reagito così come un po’ è stato messo nella condizione di fare, ammettiamolo! Ad azione corrisponde reazione, chi semina vento raccoglie tempesta. E tempesta è stata. Punto, ma stavolta non è il mio. Questione di punteggiatura. Già a metà ’60 del secolo scorso i teorici della pragmatica della comunicazione, quelli mitici di Palo Alto, provando a risolvere alcune conflittualità più banalmente (!) familiari, segnalavano la rilevanza della punteggiatura: chi ha cominciato? Da dove si mette il punto? Cruciale. Rimanendo nell’ambito stretto delle relazioni interpersonali: è il ragionamento del «lui» che abbandonato dalla «lei» si rammarica e/o dispera giacché «se avessi fatto più attenzione…», «se non mi fossi comportato in quel tal modo…». E magari qualche volta è anche così. Ma qualche altra «lei» semplicemente aveva altre esigenze, si era scoperta meno o non più interessata… insomma, «lui» avrebbe anche potuto fare o non fare ciò di cui troppo tardi si rimprovera ma, l’esito non sarebbe stato diverso: semplicemente, ciò che voleva lei non era più dipendente dalle azioni di lui. Sicché l’idea che il destino e le scelte dell’altro dipendono unicamente dal nostro agire è seducente, ci conferma nel ruolo del Deus ex machina: anche quando la machina non funziona più.
Quello che, dal punto di vista comunicativo, non mi convince del ragionamento politico che sostiene le principali, per qualcuno uniche, colpe dell’Occidente è la paradossale hubris che ne viene confermata: Putin oggi, Xi Jinping domani agiscono solo in conseguenza delle nostre azioni. Re-agiscono, infatti. Sicché il Re siamo sempre «Noi». Se un redivivo George Perec si misurasse con una riscrittura de I promessi sposi, mantenendo tutti gli avvenimenti, ma raccontandoli dal punto di vista di Don Rodrigo, avremmo ancora un romanzo sulla provvidenza? Lo storytelling, come piace definirlo ora, non ci restituirebbe una ben diversa narrazione valoriale? No so come andrà a finire, al pari di molti mi preoccupo e, certo, temo anche il peggio. Ma per provare a interpretare come un testo ciò che accade, è tutt’altro che indifferente stabilire quale ne sia l’inizio, ancor più sapere chi è che lo racconta. L’inerente complessità delle cose non sta solo nelle supposte ragioni profonde – in quanto tali, uniche – ma nella pluralità di possibili attuazioni di quelle ragioni. E dei valori convocati, principalmente da chi li convoca. Immaginarci come unici, oltre che colpevoli, responsabili del racconto è l’ultima delle nostre prepotenze, la più dissimulata delle tante arroganze. E un segno di superficialità.