La riflessione

La guerra del fango, del sangue e dei... simboli

Leonardo Petrocelli

Dalla «Z» sui carri armati russi alla runa nazista del Battaglione ucraino Azov

Un simbolo manifesto, uno misterioso e un altro che tanto indecifrabile non è, ma su cui, a queste latitudini, si fatica a soffermarsi. Il fiocco verde anti-Putin, la «Z» sui carri armati russi e la runa nazista del Battaglione ucraino Azov sono fra i riferimenti di una guerra stilizzata che corre in parallelo a quella impastata di sangue e fango.

Il primo ha i contorni di una moda giovanile finora chiusa nei confini nazionali. Gli attivisti russi anti-Putin hanno infatti deciso di manifestare il proprio dissenso legando dei nastrini verdi a vestiti, zaini, automobili, alberi, grondaie. Sono stati avvistati per la prima volta a Ekaterinburg, città a ridosso degli Urali, poi in Siberia e anche nella stessa Mosca. Piacciono agli under, soprattutto a quelli del movimento democratico «Vesna», che li appiccicano dappertutto. Sulla scelta del colore se ne sono dette tante: è il risultato della fusione di giallo e blu, tinte della bandiera ucraina, è il simbolo della speranza ma soprattutto è lo stesso utilizzato nelle Primavere arabe. Insomma, una sorta di evergreen, è il caso di dirlo, con velleità di decollo globale.
Il vero enigma da sbrogliare resta invece il significato di quella grande «Z» che compare sul fianco dei carri armati russi.

La faccenda ha armato il dibattito per parecchi giorni, fra banalizzazioni e interpretazioni spericolate. L’ipotesi più accreditata, che poi, come al solito, è anche la più «piatta», coinvolge un’altra lettera spesso collocata nella medesima posizione, la «V». Z starebbe per Zapad (ovest) e V per Vostok (est), a distinguere i battaglioni contrapposti che prima dell’attacco avevano partecipato a delle esercitazioni militari in Bielorussia. Vagamente noiosa, come spiegazione, per quanto credibile. A metterci un po’ di pepe è arrivata però la nota via Instagram del ministero della Difesa russo che ha precisato: «Z sta per Za pobedu», cioè «per la vittoria». Un’argomentazione che, a naso, profuma di posticcio.

Azzardiamo una teoria: a polemica già scoppiata, i russi hanno intuito che quella lettera ormai famigerata, sui cui tanti nemici del Cremlino si stavano esercitando, poteva invece diventare un riferimento per quanti abbracciano la causa di Mosca. Qualcosa da scrivere sui muri, piazzare sulle magliette, stampare sulle spille e sui materiali di propaganda, quasi si trattasse di apparentarsi a uno Zorro postmoderno. In realtà, l’idea di arruolare alla causa nazionalista una lettera dell’alfabeto latino (e non cirillico) pare a prima vista singolare a meno che non si abbiano pretese di universalismo. E tuttavia, l’operazione sembra essere riuscita come dimostra la florida vendita di t-shirt con «Z» bianca su campo nero promossa online dall’emittente Russia Today o l’esibizione, contestatissima, del simbolo da parte dell’atleta russo Ivan Kuliak sul podio della coppa del mondo di Doha.

In un’epoca totalmente priva di simboli - e che, anzi, continua alla disperata a riciclare quelli del Novecento -, un nuovo elemento identitario ha fatto così irruzione sulla scena. E per restarci, si direbbe. Perché se i russi hanno provato a cavalcare l’onda, l’Occidente la stessa onda l’ha «pompata» dieci volte di più leggendo in quella lettera la stilizzazione di ogni bruttura. E il brutto, l’orrido per eccellenza non ha tardato a essere chiamato in causa: «La Z è la nuova svastica» ha sentenziato lo storico ucraino Andreiy Kozysky, docente all’università «Ivan Franko» di Leopoli. Un’affermazione prevedibile, nella guerra dei simboli, ma anche incauta e un po’ autolesionistica. Perché proprio Leopoli, città una volta polacca e da sempre anti-russa, è fra le sorgenti di ciò che oggi in Occidente si fatica a nominare: il protagonismo delle frange neonaziste ucraine che, dopo aver messo a ferro e fuoco il Donbass per otto anni, beccandosi una pioggia di denunce dall’Osce e dall’Onu per orrori di ogni genere (omicidi, torture, occultamento di cadaveri in fosse comuni), sono oggi impegnate nella guerra contro Mosca.

La svastica c’è, dunque, ma è collocata dalla parte opposta. In un cortocircuito pazzesco. Tantissime foto, mai smentite, ritraggono i militari del Battaglione Azov, la più nota e famigerata fra le falangi «brune», tra bandiere ucraine, svastiche e vessilli della Nato. Mentre, dall’altra parte, i resistenti del Donbass sventolavano fino a ieri i Che Guevara e i drappi rossi. Roba da far venire il mal di mare, per opposte ragioni, a progressisti e sovranisti di mezzo mondo.

Nato nel 2014 da gruppi di volontari di estrema destra (anche italiani) ed oggi integrato nella Guardia nazionale ucraina, il Battaglione Azov ha per vessillo la runa Wolfsangel, «gancio» o «dente di lupo», simbolo adottato dai nazionalsocialisti tedeschi prima della svastica e poi riciclato dalle SS e da ben otto reparti della Wehrmarcht a Reich avviato. Più recentemente, sul declinare dei Settanta, a farlo proprio in Italia è stato il movimento «Terza Posizione» che annoverava, tra i suoi fondatori, l’attuale leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, e che faceva dell’equidistanza da Nato e Urss la propria ragione politica. Strani corsi e ricorsi politici. Nella guerra del sangue, del fango. E dei simboli.

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