La riflessione
Guerra e pace? Cose da uomini
Le donne sono solo «fantasmi»al tavolo delle trattative
Tra le migliaia di immagini della guerra che divoriamo bulimicamente ogni giorno, ce n’è una iconica. Non mostra lo strazio dei corpi martoriati dei bambini e nemmeno i palazzi sventrati dalle bombe, iconografia della sofferenza e macabro corollario di ogni conflitto. È una foto che mostra un’assenza, quella delle donne.
Intorno a un tavolo rettangolare si accomodano non senza imbarazzo due delegazioni: una russa e una ucraina. La foto «parla» senza bisogno di didascalia. Oltre al dato di cronaca di nomi e ruoli, c’è un «non scritto» su cui val la pena indagare.
Da un lato ci sono i russi, immobili nella loro fissità da politburo, aria difficile da scrollarsi di dosso nonostante del muro di Berlino sia stato celebrato già da un po’ il trentennale della caduta. Vestono eleganti completi scuri dal taglio sartoriale, il colore delle loro cravatte è ton sur ton con quello della loro bandiera nazionale, sono perfettamente sbarbati che quasi ci arriva l’odore dell’acqua di colonia. Dall’altra gli ucraini, con un voluto casual kaki da cui trasuda lo spirito «combat ready» un po’ Fidel Castro e Che Guevara della prima ora.
Ma è quello che non c’è a fare più clamore. La pace, come la guerra è roba da uomini. Le donne non contano. Questo racconta la foto delle due delegazioni contrapposte. È un bilancio amaro tirando le somme del trascorso 8 marzo, giornata anno dopo anno sempre più affollata di vacue parole. Su quel tavolo in Bielorussia l’assenza delle donne russe e ucraine è un vuoto palpabile, una perduta occasione per costruire meglio e presto azioni di distensione e dare fuoco alle polveri della diplomazia. È un danno di immagine importante soprattutto per un Paese come l’Ucraina che fonda gran parte del suo Pil sul lavoro delle donne impiegate all’estero (e l’Italia in questo è capofila) nelle attività di cura e di assistenza familiare.
Sono donne coraggiose e impavide le ucraine. Capaci di lasciare figli piccoli, mariti e genitori anziani, per garantire loro un futuro più solido in un Paese che non brilla (oggi come ieri) per le politiche economiche di sviluppo. Capaci di diluire la loro identità metà tra la terra natale, le radici, gli affetti familiari e metà tra la vita nuova nelle nostre città dove il sole scalda più che a Kiev, Karchiv, Marjupol, Odessa.
Un chilo di carne, prima della guerra, in un negozio di Kherson, grosso centro urbano dirimpettaio della Crimea, a sud dell’Ucraina, equivaleva quasi a 10 giorni della pensione di un operaio. Un mese di lavoro in fabbrica per una sarta specializzata lì vale il corrispettivo dei nostri 150 euro. E il costo della vita medio non è alla portata di tutti. Ci sia arrangia alla bell’e meglio. E così sono state le donne ucraine ad arruolarsi nell’esercito dei migranti economici prima ancora che questa locuzione si diffondesse nelle nostre case come lo è oggi. Le cronache ci raccontano delle ragazze in armi accanto ai loro mariti coscritti. Costrette a spedire oltre confine figli anche piccolissimi dai parenti all’estero pur di prendersi cura - ancora una volta - delle famiglie e, in senso più ampio, di quella «allargata» del popolo ucraino. Donne forti, volitive, tenaci. Eppure meri fantasmi sul tavolo delle trattative di pace.
Quando nel 2001 a Susan Sontag, giornalista e sociologa americana, venne assegnato il Premio Gerusalemme, nel suo discorso d’accettazione disse fra l’altro: «Che cosa intendiamo con la parola pace? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento».
Sono parole sofferte, attualissime, prive di ogni retorica se lette in chiave della guerra russo-ucraina. Oggi che ci aggiriamo in rete come novelli «flâneur» davanti a migliaia di immagini che riflettono il dolore degli altri dovremmo ripensare a quelle parole, alla guerra degli uomini e alla pace cercata senza le donne.