Il punto

La guerra vista in poltrona da casa nostra

Raffaele Nigro

In questo silenzio senza fine che il Covid ha portato dentro e fuori di casa, sprofondo nella poltrona del salotto e trasmigro con orrore dalla pandemia alla guerra in Ucraina. Immagino gli sconquassi causati dai missili e penso con cuore tremante alle chiese ortodosse di Kiev che ho visitato in gioventù, monumenti dichiarati patrimonio Unesco, col loro retablo di icone e di affreschi che chiudono nel finito delle volte e delle fiancate l’infinito della fede. Quel travaso che il giovane sant’Agostino intendeva operare tra il mare e una buca scavata nella sabbia. Ma la ricchezza dei monumenti sfiorisce di fronte ai corpi dei giovani, civili e militari, delle donne, degli anziani, dei bambini, che schizzano grumi di sangue negli angoli dello schermo e della mente. La fila di carrarmati che scorre inesorabile lungo le campagne con la sua promessa di morte e di devastazione mi ricorda la fila di camion militari che due anni fa trasportava un carico di morti mietuti dalla pandemia. Un incubo. E insieme i fiumi di lacrime colti sulle guance delle madri, i bambini costretti a risvegliarsi alla ferocia dell’umanità, i compagni che si separano sul limitare del paradiso polacco e rientrano nell’inferno ucraino. I civili che si assiepano davanti ai carrarmati, ricordano ai soldati dell’armata rossa che fino a pochi anni fa erano tutti legati da vincoli di sangue e che da una parte e l’altra del confine esiste ancora un miscuglio di familiari che aspettano di rivedersi, di parlarsi, nella stessa lingua.

Sarà per questo che non riesco a partecipare alle feste, a qualsiasi forma di manifestazione carnevalesca, a incontri culturali. Paralizzato da eventi che si fanno globali e che irrompono in casa, portano la trincea sulla mia tavola, nel mio salotto.

Che rabbia mi comunicano queste immagini. La puntualità con cui gli inviati di guerra ti trascinano nei rifugi e tra le strade devastate di Kiev o ti fanno presagire la sequenza emblematica della carrozzina che Eisenstein fece sbattere sui gradini della scalinata Potemkin nel porto di Odessa. Non è vero che le telecamere non hanno la potenza del transfert, la forza di gettarti nell’inferno dello sconforto e della guerra. Proprio in Dostojevskij ho colto i principi della comunicazione intersoggettiva negli anni della mia formazione, la capacità della narrativa e del teatro di risvegliare un io addormentato in fondo al cuore. Un grande russo che per le sue interpretazioni oggi sarebbe condannato come traditore e terrorista. Ma ciò che le immagini mi comunicano è oltre la pietà e la tenerezza, un’improvvisa voglia di partire, partecipare, correre a difendere. Ma la mia età mi impone di implodere qui, nel mio salotto, partecipare alle conversazioni sulla guerra, sulle sue ragioni reali e fittizie e al più sparare sensazioni emotive sui social, o prendere parte a fiaccolate e cortei per la pace. Mi sento impotente, inutile, divorato dall’impossibilità di gettare il cuore oltre ogni ostacolo. Ripenso alle esercitazioni militari in cui Cavaliere di Savoia imparavo a maneggiare un fucile. Avrò consumato al più un paio di caricatori sulle montagne di Cengles, Merano e Vipiteno, provando a colpire delle sagome sistemate a distanza sulla neve. Ripenso alle mie esercitazioni su una spiaggia desolata della Sardegna o nella murgia altamurana. Intuisco all’improvviso le ragioni romantiche per le quali molti giovani si trasformano in foreign fighters e partono, alla voglia mai concretizzata di scendere in Cile al tempo in cui gli Stati Uniti si schierarono con Pinochet e ammazzarono Allende. Pensieri che fanno scorrere la storia di mezzo secolo nella mia mente ma che non risolvono la mia condizione di spettatore esterno, di osservatore dalla finestra della malattia del mondo. Di medico che non ha bisturi né medicine.

È la stessa sensazione che avverto dal giorno in cui sono stato collocato in pensione. Da una vita frenetica e utile sono scivolato in una sorta di limbo di inutilità vegetativa, quella di un signore ricco di molte esperienze e impossibilitato a metterle in pratica. Poi rifletto meglio, la mia dovrebbe essere un’età di saggezza, una stagione in cui si dovrebbe smettere di coltivare bollenti furori e aiutare il mondo a rinsavire, anche dalle pagine di un quotidiano, che è già un privilegio, o donando denaro, o accogliendo qualche profugo in casa o rispondendo ad appelli umanitari. E tuttavia si tratta di azioni che non cancellano il senso di disparità tra gioventù e vecchiaia, il contrasto tra ciò che vorrei fare e ciò che mi comunica la concretezza della realtà di un televisore, di una poltrona e dell’odore che viene dalla cucina.

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