L'analisi

Dostoevskij «al bando» per punire i russi, la deriva dell’università

Mario Ricciardi

Nel 1948 lo scrittore Vladimir Nabokov scrisse un saggio sul posto che la letteratura e la lingua russa avevano nei corsi di studio di Wellesley College, nei pressi di Boston, dove in quel periodo insegnava. Nabokov era nato in Russia, da una famiglia aristocratica, ma era emigrato in seguito alla vittoria finale dei bolscevichi e si era trasferito nel Regno Unito, dove avrebbe completato i propri studi presso il Trinity College di Cambridge. Pur essendo profondamente legato alle proprie origini, e alla lingua del suo Paese (diceva che con la lingua aveva ereditato un’identità), lo scrittore non sarebbe mai più tornato nella terra dei suoi avi per via del suo anticomunismo. Nel breve saggio, scritto con l’eleganza e l’ironia che caratterizzano tutti i suoi lavori, anche quelli minori, Nabokov difende l’importanza dello studio della lingua e della letteratura russa, affermando che esse offrono allo studente «un’esperienza unica e squisita» e la possibilità di «un piacere senza fine unito al più prezioso ampliamento di orizzonti spirituali e intellettuali». Per Nabokov la letteratura russa ha «una qualità fatta di verità non enfatica, di immaginazione controllata da una dignitosa veridicità, che ha avuto un effetto nobilitante sulle letterature del mondo». Difficile trovare un modo più eloquente e diretto per trasmettere l’importanza che le opere di autori come Gogol, Turgenev, Dostoevskij o Tolstoj può avere per un lettore contemporaneo. Può essere utile ricordare queste riflessioni del grande scrittore oggi, trovandoci a riflettere sullo spiacevole incidente dell’iniziativa del prorettore alla didattica dell’Università Bicocca di Milano, che ha ritenuto che non fosse opportuno tener fede all’impegno preso con Paolo Nori per un serie di lezioni su Dostoevskij organizzate dall’ateneo lombardo. Anche se l’infelice decisione è stata quasi subito rivista dall’Università, che ha confermato l’invito, si è trattato di un episodio significativo e preoccupante su cui vale la pena di fare qualche riflessione.
Persino negli anni della guerra fredda, quando l’Europa era divisa in due blocchi, e l’Unione Sovietica rappresentava una minaccia temibile per le democrazie occidentali, lo studio della cultura russa, cioè della lingua, della letteratura e della filosofia di questo grande Paese, non è mai stato marginalizzato nei corsi universitari. Basti pensare a figure come Isaiah Berlin a Oxford, Vittorio Strada a Milano, oppure alla grande tradizione di politologi che, a partire da George Kennan, hanno dedicato le proprie energie a diffondere in Occidente una migliore comprensione delle idee, della sensibilità e delle ossessioni che attraversano secoli di storia russa. Lo stesso Nabokov, nel 1948, nel commentare la fioritura degli studi sulla Russia negli Stati Uniti, scriveva di rendersi ben conto che questo successo fosse dovuto in larga misura al fatto che a molti l’Unione Sovietica faceva paura, ma che questa non gli sembrava affatto una ragione per dolersi dell’attenzione che nella sua patria di adozione veniva riservata a una grande tradizione della letteratura mondiale.
Perché ciò che sarebbe stato probabilmente inconcepibile persino ai tempi della guerra fredda accade oggi? La causa prossima è certamente da cercare nell’indignazione, e nello sgomento, che tutti stiamo provando in queste ore, mentre assistiamo impotenti all’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia.

Tuttavia, c’è una spiegazione non legata alle drammatiche vicende odierne, che ha a che fare con una profonda trasformazione delle università, non solo italiane, che le ha rese molto più vulnerabili a considerazioni che un tempo sarebbero state liquidate come irrilevanti dagli organi di autogoverno degli atenei. Oggi le università sono molto più esposte agli umori del pubblico, perché le riforme che le hanno forzate a ricorrere in maniera sempre maggiore a finanziamenti privati ne hanno seriamente minato l’indipendenza. Ospitare un evento che, pur se inattaccabile sul piano culturale, come le lezioni di Nori su Dostoevskij, potrebbe essere sfruttato da certa stampa sempre alla ricerca di un «caso» da gonfiare ad arte, per alimentare il proprio vuoto di contenuti e di analisi, può essere un rischio di immagine che l’università-azienda preferisce non correre. Cose del genere accadono di frequente negli Stati Uniti e nel Regno Unito dove questo processo di dipendenza delle università del consenso di sponsor e consumatori è molto più accentuato che da noi. Speriamo che lo spiacevole incidente della Bicocca, cui per fortuna è stato posto rimedio, anche grazie alle proteste di tanti che sono intervenuti in difesa di Nori, sia un’occasione per riflettere su quello che stiamo facendo alle nostre università, e sul pericolo che minaccia il pluralismo della nostra cultura.

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