L'intervista
I 60 anni dello «zar» Maiellaro, vecchio genio: «Il calcio di oggi annoia e quel Bari dei baresi...»
L’intervista a uno dei più grandi talenti italiani del pallone, che ha giocato a Taranto e poi con i biancorossi
Se si domanda ad un tifoso del Bari che ha vissuto pienamente la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90 quale sia il calciatore più forte della storia biancorossa, la risposta sarà quasi unanime: Pietro Maiellaro. Sì, perché lo «Zar» è stato davvero il «Maradona dei Galletti». Non a caso al «Della Vittoria» prima e al «San Nicola» poi, il cielo si riempiva del coro «Ho visto Maiellaro», riprendendo il celebre refrain che a Napoli si dedicava al Pibe de oro.
Oggi Pietro compie 60 anni e quasi non sembra vero per chi ha respirato l’epopea di una sorta di Peter Pan del calcio. Geniale, con la personalità dei grandi e l’irriverenza che lo ha sempre portato a non abbassare mai la testa. Gli è mancata la continuità o la ferrea disciplina, si dice. Qualità che magari lo avrebbero portato nell’Olimpo del pallone. Perché nelle giornate giuste (e non erano rare) Maiellaro era realmente in grado di spostare gli equilibri grazie ad un repertorio vasto e completo: trequartista nell’anima con il «10» stampato sulle spalle, abbinava una tecnica di altissimo profilo ad una visione di gioco tanto fantasiosa, quanto lucida. Era dotato di un dribbling ubriacante nello stretto, ma anche di una progressione devastante che ne esaltava la forza esplosiva. Il tiro potente e preciso unito all’abilità sui calci piazzati gli ha consentito di raggiungere ottimi score realizzativi, pur non essendo mai stato un attaccante puro. Nato e cresciuto calcisticamente a Lucera, ha mosso i primi passi con Varese, Avellino e Palermo per poi esplodere a Taranto. Nell’estate del 1987 si trasferì al Bari che lo strappò alla Roma sborsando oltre 3,5 miliardi di lire: in biancorosso conquistò una promozione in A, la Mitropa Cup e visse due anni da protagonista nel massimo campionato (119 presenze e 26 gol il suo bottino complessivo in biancorosso) che valgono la chiamata della Fiorentina dove resta una sola stagione. Quindi gira tra Venezia, Cosenza, Palermo, i messicani del Tigre per chiudere con Benevento e Campobasso dove comincia l’avventura da allenatore proseguita con la Beretti del Foggia, il Noicattaro, il Barletta e l’Apricena prima di tornare al Bari, dove guida la Primavera. Ancora tecnico con Lucera, Ascoli Satriano e Pietramontecorvino, ora è responsabile dell’area tecnica e scouting del Lucera.
Pietro Maiellaro, che tappa rappresentano i 60 anni?
«Beh, non sono pochi. Viene spontaneo guardarsi un attimo alle spalle. Ho superato la fase dei rimpianti: è stato un bel percorso, ne vado fiero sia a livello professionale, sia sul piano umano perché, nel bene o nel male, sono sempre stato me stesso».
Lei e il Bari: una storia di rara intensità. Che, però, poteva non cominciare…
«A Taranto ero un idolo, non contemplavo proprio l’idea di passare alla squadra rivale per eccellenza… Ero ad un passo dalla Roma, poi il Bari rilanciò ancora e il presidente del Taranto, Vito Fasano, mi pregò di accettare perché quei soldi servivano alla sopravvivenza della società. La piazza, però, insorse… E io accettai il trasferimento in poco convinto. Invece, poi è diventato il mio destino».
Perché?
«In biancorosso ho vissuto momenti unici. Ho ricevuto l’amore che mi ha spinto al massimo livello, mi sentivo davvero al “centro” di qualcosa di magico. Ho cercato di ricambiare: ho sempre detto di aver commesso l’errore più grande della carriera a lasciare il posto in cui avevo tutto ciò che potessi desiderare. Per fortuna, il rapporto con la città resta fortissimo».
Che cosa è stato il Bari di Maiellaro?
«Una squadra fortissima che sfidava le grandi senza paura, guidato da un tecnico come Salvemini che aveva una sensibilità unica e sapeva come prenderci. Ringrazierò sempre i miei compagni: mi hanno fatto passare più di una bizza… Il rammarico è non aver conquistato quel piazzamento Uefa. Lo dicevo sempre al presidente: uno o due innesti e andiamo in Europa…».
Il «Presidente» era Vincenzo Matarrese.
«Una persona straordinaria, un animo buono. E al Bari teneva con tutto il cuore. Sapeva pretendere, ma manteneva ogni parola. Per me aveva un debole: quando andai via non mi parlò per diverso tempo, ma poi mi riprese da allenatore nel settore giovanile. Me ne ha perdonate così tante…».
Ma era davvero così incontrollabile?
«Gestirmi poteva non essere semplicissimo, avevo un po’ di allergia all’allenamento del martedì, ma non ero un indolente. Quando arrivi in una serie A zeppa di fuoriclasse, se non lavori duro non sopravvivi».
Scioriniamo un po’ di capi saldi: il calciatore più forte che ha affrontato?
«Ovviamente Maradona. È stato un onore aver diviso il campo con lui: per pensiero e qualità era soprannaturale. Ma allo stesso tempo umile come pochi: prendeva tante botte, ma mai un gesto insofferente: sorrideva con tutti».
Il compagno più forte?
«Per talento Joao Paulo: prima del grave infortunio era titolare in un Brasile stellare. Con lui scattò un’intesa naturale: bastava uno sguardo. Ma devo citare Giovanni Loseto e Angelo Terracenere. Giovanni per doti atletiche ed intelligenza oggi sarebbe in nazionale con la sigaretta in bocca, Angelo ha marcato tutti i grandi “10” dell’epoca e quanto correva… Ma soprattutto avevano il Bari nel sangue».
La sua miglior partita?
«Bari-Juventus 2-0, 25 novembre 1990: loro arrivarono da primi in classifica trascinati da Roberto Baggio, noi eravamo zeppi di assenze. Realizzai l’assist per l’1-0 di Soda e l’azione che portò al raddoppio su autogol di De Marchi. Il San Nicola era esaurito: fu l’apoteosi».
E la nazionale?
«Tanta concorrenza: Baggio, Mancini, Zola… ma anche qualche pregiudizio ingiustificato sul mio conto».
Come vive il calcio oggi?
«Spesso mi annoia. Sembra un gioco virtuale, le partite sono tutte uguali. I dribbling e le rovesciate sono quasi in estinzione. Riempiamo la testa dei ragazzi di tattica e ci dimentichiamo di insegnare i fondamentali. Poi magari la qualità di Berardi stende Juve e Inter. Il calcio deve ritrovare la sua essenza: tecnica, idee e un pizzico di follia…».
Magico «Zar», per te il tempo proprio non può passare…