L'INTERVISTA AL CAMPIONE

Tardelli orgoglio tutto azzurro: il «Mundial» come un tatuaggio

Michele De Feudis

Il centrocampista dell'«urlo» azzurro indimenticabile: «Ancora oggi è difficile spiegare. In Spagna ridata luce a un Paese al buio»

L’Italia «mundial» del 1982 rigenerò l’orgoglio nazionale nella magica notte del Bernabéu e riconciliò un intero paese - dopo la stagione «azzurro tenebra» segnata da terrorismo, divisioni e insuccessi sportivi - con un inedito patriottismo materiale, definito da Sergio Zavoli «un tripudio di tricolori, il tripudio di un inconfessato pudore». Giuliano Amato parlò di riscoperta «del sentimento di identità nazionale» e Giano Accame, sulla linea dello storico Paolo Giuntella, sintetizzò il fenomeno con la formula del «socialismo tricolore».
L’amarcord della notte madrilena dell’11 luglio di quarant’anni fa è rievocato sulla «Gazzetta» da Marco Tardelli, uno dei simboli di «Espagna 82», che stasera (alle 20) sarà al Festival «Il libro possibile» di Polignano a Mare, sul palco con Myrta Merlino e il governatore Michele Emiliano.
Tardelli, il ricordo più intenso di quella notte indimenticabile?
«Su tutti il giro del campo con la coppa tra le mani. La nostra gioia dirompente, con i compagni, la felicità di Enzo Bearzot e Cesare Maldini».
La finale fu vinta in maniera autoritaria.
«Una partita incredibile nella tranquillità con cui fu interpretata dalla squadra. Eravamo consapevoli della nostra forza. Anche dopo il rigore sbagliato non ci siamo disuniti».
Da dove veniva questa forza granitica?
«Da quello che avevo costruito nelle sfide precedenti. Siamo arrivati battendo le squadre migliori del campionato e del mondo intero».
Decisivi i lampi trasformati in gol da Paolo Rossi, per tutti «Pablito».
«Veniva da un problema fisico, non aveva giocato per due anni partite ufficiali. E aveva anche problemi legate al timore della sua tenuta. Dopo due anni non avrebbe mai pensato di recuperare in maniera così brillante».
Una squadra che aveva consolidato una intesa e un alchimia unica.
«Bastava guardarsi negli occhi. Durante gli allenamenti c’era chi spronava Rossi in maniera simpatica o duramente, ma con grande animo di gruppo».
Il ruolo dell’allenatore Enzo Bearzot?
«Determinante. È l’uomo che ci ha messo la faccia sempre, senza farci sentire la pesantezza del clima di conflitti che avevamo con i media. Alla fine quando abbiamo vinto, con un gesto straordinario, si è tirato indietro: ci ha lasciato la ribalta della festa».
Da dove nasceva l’ostilità di stampa e tv?
«Dal dialogo duro con Bearzot. Era un allenatore diverso, con grande cultura. Combatteva i giornalisti con risposte tranquille e questo li faceva infuriare…».
Il girone iniziale fu vissuto con apprensione. Si temeva di tornare a casa.
«Secondo me il problema era che avemmo un cammino inverso rispetto all’Argentina ‘78. Lì facemmo bene le qualificazioni e poi calammo. In Spagna, fu fatta una preparazione diversa, che ci creò difficoltà iniziali, per poi vedere la squadra crescere sul piano dell’intensità gara dopo gara».
Le prime tre partite non furono da incorniciare.
«Non esprimemmo un gran gioco, ma non eravamo in difficoltà. Con la Polonia prendemmo due traverse, fummo sfortunati. Con il Perù anche. Il Camerun ci fece paura, tememmo qualcosa, ma alla fine trovammo la nostra dimensione».
Della tournée resta anche l’epica dell’albergo madrileno…
«C’erano le stanze di quelli che stavano sempre svegli - come Oriali o Conti - e la camera di Zoff e Scirea: la chiamavamo la Svizzera, era quella più silenziosa».
La notte dopo la vittoria…
«Dino e Gaetano rimasero in camera, noi eravamo nei corridoi a festeggiare. E ci domandavamo: “Adesso cosa si può fare ancora di bello?”. Pensavamo già al futuro prossimo azzurro».
Lei è ricordato per "l’urlo mundial".
«Difficile raccontarlo. Una sensazione che puoi solo provare… Con un passaggio di sinistra, Scirea mi ha servito un gran pallone e l’ho buttata dentro. Una gioia intensa, di un intero Paese».
Che Italia era la nazione dell’82?
«Un po’ divisa, dalla politica, dal terrorismo, con una situazione economia difficile. Quella vittoria rilanciò il Paese. Il calcio divenne un elemento unificante. Prima c’era il rosso e nero, poi diventò tutto azzurro».
Il presidente Sandro Pertini fece breccia nei cuori degli italiani. Il vignettista pugliese Andrea Pazienza lo trasformò anche in fumetto, il meraviglioso "Pert"…
«Ricordo la partita a carte del presidente con Bearzot, Causio e Zoff… Era un uomo felice. Quando facemmo il terzo gol ai tedeschi disse urlando: “Adesso non ci prendono più”. Era un’Italia diversa, come era il mondo diverso…».
Avete sempre operativa una chat dei campioni del 1982.
«Ci siamo quasi tutti, ogni tanto ci scriviamo. Sappiamo che se c’è qualche problema ci siamo e ci sosteniamo».
L’Italia di Mancini è fuori dai prossimi mondiali.
«Roberto è stato bravo, ha vinto l’Europeo. Poi forse ci sono stati errori, molta sfortuna. Capita nel calcio».
Avevate in squadra pugliesi e lucani…
«Franco Selvaggi non giocò nemmeno un minuto. Lo andavo a trovare la notte, sdrammatizzava tutto. Creava coesione, fu fantastico…».
Franco Causio?
«Era l’esperienza del gruppo… Si è messo al servizio di tutti».
A Bari, da allenatore dei biancorossi, fu accolto da gigantografia azzurre…
«Bellissimo, ho tanti amici, su tutti Michele Emiliano e Francesco Boccia, insieme andiamo a mare, in Salento».
Tornando al Mondiale, le vittorie con Argentina e Brasile?
«Eravamo sfavoriti per i pronostici, per i giornali, per noi no. Maradona, Socrates, Zico, Passarella: abbiamo battuto dei giganti».
I giganti (vittoriosi) alla fine siete stati voi: Zoff, Gentile Cabrini…
«Abbiamo scritto una pagina indelebile della storia azzurra».

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