Il caso

Riecco il «Marocchino», torna a casa il padre della «Sacra corona libera»

Fabiana Agnello

Il boss mesagnese Antonio Vitale ha lasciato il carcere dopo 37 anni di reclusione

Antonio Vitale, 57 anni, detto «il Marocchino», è da ieri un uomo libero: è uscito dal carcere di massima sicurezza Mammagialla di Viterbo dopo 37 anni. Ha pagato il conto con la giustizia e ora è un altro «vecchio boss» della Sacra corona unita che va ad aggiungersi agli altri irriducibili (liberi e semiliberi) Giovanni Donatiello detto «cinque lire», Andrea Bruno di Torre Santa Susanna, Daniele Vicientino alias il professore, Ronzino De Nitto e Salvatore Buccarella, detto Totò Balla, tornato in carcere lo scorso settembre.

Eppure, nella sua Mesagne, a dispetto del tempo passato, il nome sembra ancora viaggiare di pari passo con l’alias. Sarà pure perché un fratello gli ha dedicato il nome del ristorante. E perché l’aspirante pentito Cesare Sorio detto «Alberto», di San Pietro Vernotico, in occasione di uno degli interrogatori in carcere del pm della Dda di Lecce Carmen Ruggiero, ha raccontato che il Marocchino è il capo di Lucio Annis, capozona di San Pietro Vernotico per la frangia dei mesagnesi e destinatario di una bomba sotto casa, piazzata da un giovane protetto dagli Attanasi della frangia tuturanese. Almeno, questo è quanto emerso dalla recente inchiesta antimafia sul clan Buccarella.

Il suo nome è legato a quello di Eugenio Carbone, suo fedelissimo, ucciso il 15 settembre 2000 a San Vito dei Normanni e che secondo sei collaboratori di giustizia era stato colui che aveva commesso materialmente l’omicidio di Marcella Di Levrano, assassinata dalla Scu perché divenuta confidente della polizia.

Nel suo curriculum ha tre evasioni e condanne definitive per associazione mafiosa. È riconosciuto - con sentenza - come uno dei fondatori del clan dei mesagnesi quando, messo da parte il duo storico Giuseppe Rogoli-Salvatore Buccarella, detto Totò Balla - tornato di recente nel carcere di Secondigliano con l’accusa di estorsione e nuovamente associazione mafiosa - diede vita alla «Sacra corona libera» insieme a Massimo Pasimeni, detto «piccolo dente», e Massimo D’Amico, alias «Uomo tigre».

Condannato al regime del carcere duro, Vitale nella sua cella si mise a studiare. Dal 1999, alla scadenza di ogni biennio, i ministri che si sono succeduti, hanno sempre firmato il decreto per la conferma del 41 bis. Alla base, la pericolosità sociale del soggetto: concreta e attuale è stata ritenuta la capacità di mantenere contatti con l’esterno del carcere, con alcuni degli affiliati alla Scu, che sembra resistere nonostante la doppia tenaglia. Da una parte le continue inchieste della Dda di Lecce, dall’altra la conseguenza dei pentimenti.

Vitale mise in atto la prima evasione quando era ancora minorenne (aveva 17 anni ed era recluso nel carcere minorile di Lecce). Fu ripreso, ma non si arrese. Due anni dopo, ricevuto un permesso per partecipare al funerale, a Torino, di uno zio, finito il rito funebre tagliò la corda. Fu rintracciato qualche tempo dopo in un casolare nelle campagne di Latiano. E nel 1994, organizzò una terza fuga dal carcere di Brindisi: doveva essere processato per la seconda evasione. Ma, mentre i carabinieri lo scortavano alla macchina, ammanettato, saltò sul sellino di una moto con un complice e scomparve coperto da due auto. Fu riacciuffato dopo un paio di anni in Montenegro.

Un nome pesante quello di Antonio Vitale, tornato in libertà in un periodo storico in cui le giovane leve dei clan brindisini hanno dichiarato guerra ai vecchi boss.

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