il processo nel brindisino
Delitti Cairo e Spada, l’alibi di Cosimo Morleo «Quando scomparve Cairo io ero in Sicilia»
L’imputato, considerato il mandante, ha riferito di aver saputo della sua morte nel processo
«Ero in Sicilia per una inaugurazione quando scomparve Salvatore Cairo. Ero stato invitato molto tempo prima. Era di una mia cliente, non potevo non andare e ci sono andato. Ho saputo com’è morto, solo in questo processo. Io sapevo che era stato gettato a mare. Se non erro, lo lessi sui giornali. Non l’ho mai accusato di un ammanco di soldi».
Cosimo Morleo ha affidato alla Corte d’Assise il suo alibi per il giorno in cui scomparve l’imprenditore Salvatore Cairo, avvenuto il 6 maggio 2000, respingendo l’accusa di essere stato il mandante dell’omicidio che, secondo la ricostruzione della Dda di Lecce, sarebbe stato commesso dal fratello Enrico, così come quello dell’altro imprenditore che lavorava nel settore della vendita delle pentole e degli articoli per la casa, Sergio Spada.
«Con Cairo ci lasciammo in armonia», ha detto rispondendo a una domanda dell’avvocato Oreste Nastari che in giudizio rappresenta uno dei familiari di Spada costituiti parte civile. «Io stavo abbandonando le pentole, se vuole può chiedere al signor pentito Massimiliano Morleo, mio fratello», ha aggiunto. «Perché dovevamo fare un grande parcheggio e un grande lavaggio per i tir. Glielo può chiedere a Massimiliano. Lui doveva mettere 200-300 milioni, ogni volta mi faceva fare dei preventivi, mi ha fatto fare delle brutte figure e poi non gli ho dato più retta», ha spiegato. «Dopo la morte di Elvira (la moglie, ndr), sono andato avanti per un paio di anni con le pentole, forse, perché la priorità era la legna, a me interessavano i soldi in contanti, non mi interessavano le pentole».
L’avvocato Luca Leoci, difensore dell’imputato, ha chiesto di ricostruire in che modo c’è stato lo scioglimento della società che Cosimo Morleo aveva con Salvatore Cairo. «Ci sono stati degli accordi? Ci vuole dire se avevate preso accordi in merito a un divieto di concorrenza?». Risposta: «Zero. Ci siamo lasciati, ci siamo divisi i soldi, addirittura mi voleva vendere il capannone dove noi operavamo e io da subito incassavo i soldi e io dissi: “No Salvatò, non mi piace questo lavoro, io già ho aperto la legnaia, mi sto portando le cose mie appresso perché dobbiamo affittare”. Dobbiamo affittare il capannone a una banca. E addirittura aveva Salvatore, dopo diviso le cambiali, 170/180 milioni di assegni postdatati che lui mi fece un biglietto con le scadenze che ogni mese praticamente ci vedevamo al bar Corallo di fronte casa sua e me li dava», ha detto ancora spiegando che si sarebbero visti anche dopo lo scioglimento per dividere gli utili. «E questi soldi erano nascosti sotto a un tavolino che io avevo l’accesso a casa di sua madre, mi fece vedere: “Guarda dove li ho nascosti” Aveva un tavolino con doppio fondo, lo alzò e c’erano tutti questi assegni postdatati. Le cambiali stavano a casa in una cassetta, gli assegni invece a casa della madre. Se io avessi voluto arricchirmi avrei fatto un finto furto e mi sarei rubato un miliardo. Non mi sono mai permesso. Addirittura mio fratello Massimiliano talmente avaro mi ha sempre detto: “Ma dove mettete i soldi?” E non ho mai detto niente a nessuno. Lo sto dicendo oggi».
Il presidente della Corte d’Assise, Maurizio Saso, ha chiesto quando avesse chiuso con l’attività legata alle pentole. «Ho chiuso dopo la morte di Cairo», ha risposto. «Io se avessi voluto, avrei continuato e avrei dei miliardi. Ho smesso dopo 4-5 anni dopo la morte sia di Spada che di Cairo. Non mi piaceva più quel lavoro». Ancora l’avvocato Leoci: «La sua attività, quella delle padelle, quella sua e di Salvatore Cairo, era potenzialmente in concorrenza con quella di Spada o avevate tipologie di clienti diversi?». «Io facevo un altro lavoro. Io e Cairo siamo diventati primi perché abbiamo dato le provvigioni ai venditori, cioè prendevi mille euro di cambiali e ne davi 500 di soldi ai venditori, ti prendevi le cambiali, mi spiego? loro venivano tutti da Cairo venivano, ecco perché noi sfondammo». Il presidente ha chiesto alcuni chiarimenti: «Quando si sciolse la società fra Lei e Salvatore Cairo nel ‘99 è vero che lei accusò il Cairo di un ammanco di centinaia di milioni di lire?». «Mai», ha detto Cosimo Morleo. «È vero che lei sostanzialmente mise il divieto a Cairo di aprire qualsiasi attività? Neanche una serranda doveva aprire». «Mai», ha detto di nuovo. «E’ vero che lei rivendicò la borsa con gli assegni che aveva Salvatore Cairo?», ha chiesto ancora il presidente. «Io con la signora Elvira, la moglie (di Cairo, ndr), praticamente ci vedemmo al locale dopo qualche giorno e lei mi chiese: “Ma vi siete diviso tutto? Sì, no”. Io se volevo ne potevo approfittare, potevo dire no e mi prendevo le pentole. E dissi: “sì, guarda, Salvatore ha oltre 150 mila euro in assegni” e io avevo un pezzo di carta con tutte le scadenze sia io sia Salvatore, che ha preso lui l’impegno che ogni mese lui cambiava gli assegni e me li dava. Mi spiego? Ci incontravamo al bar Corallo». «Quindi Lei chiese questi assegni alla Elvira?», ha domandato il presidente Saso. «No. Lei mi disse se avevo qualcosa in piedi con Cairo e io le dissi: “Con tuo marito ho soltanto questa cosa io”. «Qual era l’accordo esattamente che lei disse?», ha proseguito il giudice. «Salvatore aveva 150 milioni, 180, non mi ricordo, di assegni postdatati che ogni mese scadevano e puntualmente Salvatore mi chiamava, o ci incontravamo al bar Corallo, lui cambiava gli assegni, perché era lui diciamo il contabile, e mi dava la metà. Erano soldi vecchi della Golden Star. Non ho preteso più niente perché poi sparì».