il caso
Trani, processo d'Appello, il medico del lavoro: «La morte di Paola Clemente non poteva essere evitata»
Lo ha ribadito ai giudici. La bracciante agricola tarantina morì a 49 anni per un infarto in un vigneto di Andria mentre lavorava nei campi
TRANI - Anche il rispetto della normativa sul lavoro non sarebbe stata sufficiente, probabilmente, a impedire che la morte di Paola Clemente si verificasse. È quello che, in sostanza, ha ribadito il medico del lavoro dinanzi ai giudici della Corte d’appello di Trani nella mattinata di ieri, in merito alla morte della bracciante agricola tarantina deceduta a 49 anni per un infarto il 13 luglio 2015 in un vigneto di Andria mentre lavorava nei campi. Il processo vede imputato l’imprenditore agricolo Luigi Terrone, assolto in primo grado, con l’accusa di omicidio colposo.
A opporsi all’esito del primo giudizio, oltre alla procura tranese, anche i familiari della donna, che attraverso gli avvocati Giovanni Vinci e Antonella Notaristefano hanno impugnato la sentenza. Il pubblico ministero Roberta Moramarco, che ha coordinato le indagini, sostiene infatti che la morte della donna sia «la conseguenza di una cascata di eventi, l’ultimo dei quali consistito nella mancanza di una idonea “catena della sopravvivenza”».
Il medico del lavoro che in primo grado aveva redatto la perizia ha invece confermato le risultanze di quelle relazioni discusse già nel primo dibattimento, ossia che il rischio di infarto avrebbe potuto riguardare potenzialmente ogni persona in quella fascia di età e con quello stile di vita, ma senza però essere prevedibile o evitabile.
Conclusioni che furono condivise anche dal giudice Sara Pedone che nelle motivazioni della sentenza di primo grado, aveva spiegato che anche se era «indubbio» che l’imputato non avesse adempiuto agli obblighi verso i lavoratori, «altrettanto vero» era che «non si vede come siffatte procedure avrebbero potuto influenzare il decorso degli eventi che hanno poi portato alla morte di Paola Clemente». Il processo aveva infatti portato alla luce che la patologia di cui la donna soffriva, non solo non era tale da far dichiarare la sua inidoneità al servizio, ma soprattutto che «la mancata valutazione del rischio cui la stessa era sottoposta, non ha rappresentato la causa dell’evento, ma mera concausa» portando a una esclusione di responsabilità di Terrone.
Diverso è stato il parere del pm Moramarco che impugnato quella sentenza sostenendo che il decesso della bracciante è legato a diversi fattori riconducibili alle condotte di Terrone e tra queste anche «l’omessa predisposizione di procedure di primo soccorso che consentissero l’attivazione precoce e tempestiva dei primi due anelli della catena dell’emergenza che, in attesa dell’arrivo del soccorso avanzato, rappresentano un momento chiave per permettere la sopravvivenza dell’infortunato».
Su questo punto, nelle 115 pagine delle motivazioni, il giudice Pedone, aveva ritenuto che la mancanza di un medico sul posto di lavoro e soprattutto di personale addestrato per le operazioni di primo soccorso, avessero certamente portato a «una grave sottovalutazione dell’evento» che ha generato «un ritardo nell’attivazione del primo soccorso, rivelatosi poi fatale», ma alla 49enne erano comunque state praticate misure di primo soccorso «seppur non da lavoratori a ciò espressamente deputati» che non state sufficienti. Per il magistrato, inoltre «anche le difficoltà dell’ambulanza del 118 (giunta sul posto dopo 26 minuti) di raggiungere il luogo ove la Clemente si trovava non sarebbero state scongiurate neppure dalla presenza di personale di primo soccorso».
Nei prossimi mesi, la Corte sentirà altri testimoni e poi dovrà esprimersi sulla vicenda per decidere se assolvere l’imprenditore o se invece l’imputato abbia contribuito a determinare la morte di Paola Clemente.