la sentenza
Bari, «Voleva uccidere l’amante della mamma»: il boss di Japigia condannato a 15 anni
I giudici hanno riconosciuto l’aggravante mafiosa nei confronti del pluripregiudicato Filippo Mineccia
BARI - Condanna a 15 anni di reclusione per il pluripregiudicato del quartiere Japigia Filippo Mineccia, esponente di spicco del clan Palermiti di Japigia, accusato del tentato omicidio del 53enne Nicola Girone e delle lesioni causate al 52enne Alfredo Morisco, del tutto estraneo alla contesa. Il giudice Antonietta Guerra ha riconosciuto le aggravanti del metodo mafioso e dei futili motivi ma ha escluso la premeditazione.
La vicenda risale al 24 febbraio 2016. Girone - hanno ricostruito le indagini della Dda - aveva offeso la reputazione dei genitori di Mineccia e, per questo, doveva essere punito. Inizialmente fu ipotizzato un regolamento di conti interni alla criminalità, poi smentito dall’esito delle indagini: Mineccia agì per rancori legati a vicende personali. Secondo il pm Fabio Buquicchio, però, lo avrebbe fatto pianificando l’agguato e usando l’unico metodo che certi contesti conoscono per risolvere le questioni: quello mafioso. L’accusa aveva chiesto la condanna a 17 anni e 6 mesi di reclusione. Le motivazioni della sentenza si conosceranno tra 90 giorni.
Nell’ultima udienza del processo prima della sentenza, è stato lo stesso imputato - con un passato da killer del clan - a raccontare come andarono le cose, confessando il delitto. Ha spiegato che girava sempre armato, su consiglio del suo amico Domenico Milella, ex braccio destro del boss Palermiti, ora collaboratore di giustizia. Ed era armato anche quel giorno, quando passando davanti ad una enoteca sentì Girone, che aveva avuto una relazione con sua madre, parlare della donna definendola «una poco di buono» e del padre «un gay». «Provavo vergogna - ha detto Mineccia - . Purtroppo, sul quartiere Japigia era diventata una voce ricorrente, sempre messa in giro da questa persona».
Quando lo vide «istintivamente e preso dalla rabbia, decisi di spararlo alle gambe, puntando la pistola sempre verso il basso. Ma poiché non ero esperto di armi ed era la prima volta che sparavo, dovetti esplodere più colpi prima di rendermi conto di averlo effettivamente ferito alle gambe. Lo vidi saltellare per schivare i colpi e smisi di sparare solo quando mi resi conto di averlo ferito alle gambe, perché cadde a terra. Non volevo ucciderlo, né ferirlo, né ferire altri, ma ebbi la reazione di punirlo perché ero esasperato dalle maldicenze che costui aveva diffuso nel quartiere Japigia sulla mia famiglia, che spesso mi venivano riferite. Mi sentii ferito nell’onore della mia famiglia. Ho agito d’impulso perché volevo porre fine a quelle maldicenze, che mi riguardavano personalmente».