Il processo
Monopoli, oltre trenta coltellate alla ex: un 35enne rischia 14 anni di reclusione
Giuseppe Ambriola è imputato per il tentato omicidio di Dory Colavitto. Il 3 luglio si tornerà in aula per arringa e sentenza
BARI - Quattordici anni di reclusione per il tentato omicidio pluriaggravato della ex, la 35enne di Monopoli Dory Colavitto, scampata alla morte all'alba del 2 novembre 2023 dopo essere stata accoltellata con oltre trenta fendenti, uno dei quali al volto. È la condanna chiesta dalla Procura di Bari per il 35enne Giuseppe Ambriola, bracciante agricolo pluripregiudicato residente a Triggianello (frazione di Conversano).
Ambriola, in carcere dal giorno del delitto, è a processo con rito abbreviato dinanzi al gup Francesco Vittorio Rinaldi. Risponde di tentato omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà (per aver inferto oltre trenta fendenti, alcuni dei quali al volto, anche quando la vittima era riversa a terra ormai inerme) e per aver commesso il fatto al culmine di condotte persecutorie, iniziate a giugno 2023 dopo la fine della relazione tra i due.
La violenza aggressione risale all’alba del 2 novembre. La donna - hanno raccontato i testimoni oculari, tra i quali la mamma della vittima - era appena uscita per andare a lavorare quando è stata sorpresa dall’ex che si era appostato sotto casa e lì accoltellata.
Nel provvedimento cautelare la giudice ripercorreva la «relazione turbolenta» culminata nella separazione e nel «cruento e doloroso epilogo» dell’aggressione. Lei a metà settembre era tornata a casa dei genitori con il figlio di tre anni avuto dal compagno, il quale in più di una occasione si era dimostrato violento, prendendo a sassate l’auto della donna, togliendole il telefono per controllare i messaggi temendo che stesse frequentando un altro uomo, appostandosi all’ingresso del lavoro e sotto casa. «Frequenti e pesanti litigi» e «gelosia morbosa e asfissiante» sono le espressione che la gip aveva usato per descrivere quel rapporto diventato tossico.
La notte prima di ferire la ex compagna riducendola in fin di vita, l’uomo - ha raccontato durante l’interrogatorio - non aveva chiuso occhio «afflitto dal pensiero ossessivo di non poter vedere il bambino e tormentato dalla gelosia». Era andato lì armato di un grosso coltello con l’intenzione - nella sua versione dei fatti - di consegnarlo alla donna per darle uno strumento di difesa nel caso in cui la situazione fosse degenerata. Poi, però, ha detto di aver reagito alle urla della donna che a sua volta impugnava un mattarello. «In quei 30 secondo non ero io» aveva detto al giudice, spiegando di non essersi reso conto delle coltellate che stava infliggendo. Ha tentato di giustificarsi, negando la premeditazione e dicendo che «non era mia intenzione ucciderla, ho detto che vorrei morisse ma non per mano mia, che le capitasse una disgrazia».
L'inchiesta coordinata dalla pm Carla Spagnuolo con l’aggiunto Ciro Angelillis, lo ha invece ritenuto «lucido quanto agghiacciate», ricordando anche il contenuto delle lettere manoscritte indirizzate a genitori, suocera e figlio nelle quali, di fatto, annunciava l’aggressione («non meritava di vivere»).
Durante la requisitoria della Procura conclusa con la richiesta di condanna, l'uomo - presente all'udienza - ha più volte inveito contro la pm, tanto che il gup ha disposto la trasmissione del verbale dell'udienza a Lecce per oltraggio a magistrato. Nel processo si sono costituite parti civili la 35enne e la mamma. Nella prossima udienza del 3 luglio la parola passerà alla difesa dell'imputato e in quello stesso giorno il processo potrebbe concludersi con sentenza.