Il caso
Paola Labriola «vittima del dovere»: il Tribunale ha accolto il ricorso della famiglia
La psichiatra uccisa nel 2013 lavorava in un luogo «non sicuro»
BARI - La psichiatra barese Paola Labriola è una «vittima del dovere». Lo ha stabilito il giudice del lavoro di Bari, accogliendo il ricorso del marito e dei tre figli della dottoressa uccisa il 4 settembre del 2013 da un paziente tossicodipendente con 57 coltellate mentre era al lavoro nel Centro di salute mentale di via Tenente Casale, nel quartiere Libertà. Per il delitto il 41enne Vincenzo Poliseno sta scontando in carcere una condanna definitiva a 30 anni di reclusione, mentre è tuttora pendente in appello il processo sulle presunte responsabilità degli ex vertici della Asl di Bari per non aver garantito misure di sicurezza adeguate (in primo grado sono stati condannati l’ex direttore generale Domenico Colasanto e altri due funzionari).
In sede civile i famigliari, assistiti dagli avvocati Giovanni Di Cagno, Michele Laforgia e Mirco Semeraro (Polis Avvocati), un anno fa hanno citato in giudizio Ministero dell’Interno e Asl per ottenere il riconoscimento dello stato di «vittima del dovere», inizialmente negato. E il Tribunale ora ha dato loro ragione. La dottoressa Labriola «è stata vittima di assassinio mentre esercitava la propria attività lavorativa» in «condizioni ambientali» che avrebbero esposto la professionista «a maggiori rischi per la propria salute». Per motivare questa convinzione, il giudice ricorda che «dalla lettura delle sentenze emesse in sede penale emerge che il luogo di lavoro dove prestava servizio la dottoressa Labriola non era sicuro». Infatti il centro di salute mentale «non era fornito di alcun minimo assetto o presidio di sicurezza a tutela del personale operante sebbene fosse frequentato da soggetti con gravi turbe psichiche e in alcuni casi già sottoposti a procedimenti penali per fatti violenti». Anche nella sentenza a carico dei dirigenti Asl «si dà atto della precarietà in cui lavoravano i dipendenti nel centro di via Tenente Casale. Sono state confermate le aggressioni subite dai dipendenti ed è emerso che non vi erano particolari presidi di sicurezza, controlli degli accessi; le vie di fuga erano poi inesistenti». E il fatto che la sentenza non sia ancora definitiva non la rende meno rilevante ai fini della decisione del giudice civile, perché «contiene tutti gli elementi di prova determinanti per ritenere la natura di particolare condizione ambientale e operativa del luogo dove lavorava la dottoressa Labriola e non per stabilire eventuali responsabilità personali».
Secondo il giudice del lavoro Francesco De Giorgio, cioè, «emerge senza dubbio che la dottoressa operava in particolari condizioni ambientali così da essere esposta a maggiori rischi: basti pensare alla totale assenza di un servizio di vigilanza o almeno di portierato, nonostante risulti dalla sentenza che tali servizi fossero stati più volte richiesti ai vertici Asl. L’evento fatale si è dunque verificato in presenza di un rischio specifico diverso da quello insito nelle ordinarie funzioni istituzionali». Per questa ragione il Ministero è tenuto all’inserimento della dottoressa Labriola nell’elenco delle vittime del dovere, mentre l’Asl Bari è tenuta al pagamento in favore degli eredi di una somma a titolo di «speciale elargizione», nonché degli assegni vitalizi mensili in favore di ciascuno di essi, oltre all’esenzione dal pagamento del ticket per qualsivoglia prestazione sanitaria.
I famigliari di una vittima del dovere, cioè, hanno diritto agli stessi benefici che la legge riconosce alle vittime della criminalità organizzata e del terrorismo.