Il ricordo
«Io, mio fratello e Nichi Brienza davanti alla Palma in via Sparano»
Il regista Alessandro Piva: bellissimi ricordi di sfrontata gioventù
Quanti pensieri, quando assisti a un funerale. Ho la sensazione che in circolo, tra chi accorre a un evento del genere, scorrano centinaia di flashback che toccano infanzia, scuola, vacanze, sesso, famiglia, lavoro, sempre protagonista assoluto il defunto. E l’altro pomeriggio anche io ho dato il mio personale contributo al film della vita di Nichi Brienza, forse il modo migliore di salutarlo e un motivo per fare il punto su una bella e remota stagione della vita, prima che la memoria giochi brutti scherzi.
Il compianto primario di Anestesia e Rianimazione del Policlinico, il professor Brienza, per me era Nichi, uno del leader della comitiva che negli anni ’80 stazionava alla “Palma”, quando via Sparano era costellata di piccole isole di verde, molte delle quali ospitavano proprio delle palme nane. La Palma era il punto di ritrovo davanti al negozio di Hi-Fi Ranieri, a pochi metri da via Principe Amedeo, dove Nichi con tanti amici del Flacco si dava appuntamento la sera ai tempi del liceo. La Palma era il loro modo di stare dentro e fuori allo stesso tempo, distinti dalla bolgia paninara del bar Esperia e di Rossetti, ma talmente vicini, alla “svoltata”, da consentire incursioni alla ricerca di belle ragazze in cerca di anticonformismo. Tra i compagni di scuola e della Palma c’era anche mio fratello Paolo, amico del cuore di Nichi, perso un’estate di tanti anni fa in un incidente stradale nell’assolato pomeriggio dell’hinterland barese. Nelle strade deserte della controra Paolo aveva un appuntamento con un’altra unica auto, che il destino aveva piazzato in maniera infallibile dopo un pericoloso curvone.
Tanti anni fa Nichi e Paolo erano un particolare mix di dedizione agli studi, genialità e ribellismo giovanile. Dei secchioni/scapocchioni, in un’epoca nella quale la politica iniziava a perdere fascino e a lasciare posto all’edonismo reaganiano. Io avevo qualche anno di meno e andavo allo Scacchi, lo scientifico: questi due elementi bastavano a mettermi una certa soggezione. Ma il loro atteggiamento era inclusivo, spesso li raggiungevo alla Palma e andavamo insieme per locali. Ricordo il rito del Penthouse, una discoteca all’aperto verso Carbonara: si arrivava in tarda notte e si attendeva l’arrivo in consolle dell’ultimo Dj, non ricordo chi fosse, che avrebbe lanciato un’ora di musica new school alla fine della serata. Così Nichi, Paolo e i loro amici, preso possesso della pista, ballavano New Age e Dark con i loro spolverini lunghi e le scarpe a punta. Bellissimi nella loro sfrontata gioventù alternativa, in una città troppo grande per bollarli come dei Paria, troppo piccola per riconoscerne la cultura di tendenza. Talvolta mi capitava di partire nella R4 rossa di Nichi o nella Giulia Super verde scuro di Paolo, verso mete che diventavano subito epiche: un caffè a Napoli e il mercato degli abiti usati a Ercolano, una settimana d’estate a Soverato, il concerto di Pino Daniele, la trasferta a Quasano per la partita del sabato, un blitz a Rosamarina: cose così. Se non era occupata da fidanzatine di passaggio, la R4 rossa vedeva Nichi alla guida, e poi mio fratello Paolo, Giuseppe Dalfino e Gaetano Marigliano. All’epoca in strada i posti di blocco erano all’ordine del giorno: quell’equipaggio avrà visto la paletta rossa decine di volte, non esagero. Ecco: qui nel cortile dell’Ateneo, circondato da centinaia di persone ancora incredule, il filmino che mi faccio io è quel gruppo di ragazzi belli come il sole che viaggiano nella R4 rossa, la mano di Nichi sul cambio, lo stereo a palla e tutti a urlare a squarciagola “Rock the Casbah” dei Clash.
Abbraccio nella folla prima Giuseppe e poi Gaetano, chissà quali sono le sequenze che stanno rivivendo loro. Il primo spinello? Gli esami di stato? Quella mitologica vacanza a Palma di Maiorca quando se la fecero con le olandesi?
Il prete inizia a dire la messa, ma nella piccola cappella dell’Ateneo la folla stipa ogni angolo, così restano fuori in tanti. Per vincere la tristezza e dare corpo ai propri personali flashback molti raccontano gli aneddoti più disparati, è quasi una gara a stabilire chi abbia conosciuto Nichi più indietro nel tempo. Giulio Dilonardo sfodera una foto estiva dai colori sbiaditi che lo ritrae con suo fratello Paolo, schierati su un muretto a secco insieme a Nichi e al fratello Francesco, avranno tra i 6 e gli 8 anni: vince a mani basse. Chissà che film si sta facendo lui, castelli di sabbia, biglie o lucertole. Dalla cappella si affaccia Beatrice, la figlia più giovane di Nichi, disfatta dalle ultime ore e nondimeno bellissima. A mezz’aria tra furia e disperazione implora alla folla di moderarsi, la funzione è disturbata dal chiacchiericcio che proviene dal cortile. Nelle volte dell’Ateneo l’eco diminuisce, ma tutti sanno che Nichi è qui fuori a godersi il film della sua vita che scorre disordinato nei cuori di tutti noi, amici, parenti, colleghi, vecchi amori.
Un insistito applauso fa partire tra due ali di folla il carro funebre, che lascia nella sua scia un corridoio di dolore, un vuoto osceno che per un lungo attimo separa la famiglia dal resto del mondo. È ora di andare: un ultimo abbraccio a Francesco, anche lui compagno di tante scorribande di gioventù, incoraggiante nel suo essere presente a se stesso e nel rincuorare i nipoti, di fatto delle fotocopie del padre alla loro età. Milvia Di Gioia e Rossella Melodia, nel salutarmi con quella serenità olimpica che solo i medici sanno assumere in certe situazioni, mi rimarcano quanto ingiuste siano le foto di Nichi che stanno circolando in queste ore, il suo ben noto fascino maltrattato oltre che da lui stesso, da scatti poco più che casuali.
Nel mettere a fuoco la questione tirata in ballo dalle mie amiche, risale a galla un dettaglio sepolto da quarant’anni nella mia memoria: tornato a casa scendo in cantina e cerco lo scatolone dei miei scatti giovanili, quando iniziavo a cimentarmi con la fotografia, la mia prima indimenticata palestra. Individuato lo scatolone faccio per frugare tra le vecchie foto, ma subito prepotente si presenta un ritratto di Nichi giovanissimo, sereno, concentrato, la solita sigaretta tra le dita. Eccoti qua Nichi, così ti ricordo io: salutami Paolo e giacché ci sei anche tuo padre Totò, che ricordo con quella sua voce inconfondibile e quell’aria di sapere come va il mondo, quando andavamo allo stadio della Vittoria, settore distinti, a vedere il Bari. Di quella pattuglia di quattro sono incredibilmente rimasto già l’unico: forse ha ragione mio fratello Andrea quando riflette che la dipartita di Nichi, per la nostra generazione, suona come la prima vera chiamata al sipario. Sarà, ma la risposta è una sola, fratello: Rock the Casbah.