Il caso
Bari, coppia omosessuale chiede adozione: il Tribunale dice no
La Corte d’appello di Bari dice no a due donne sposate che hanno richiesto l'adozione di un ragazzo richiedente asilo: in Italia non si può, all’estero sì
BARI - La legge italiana non consente alle coppie omosessuali di adottare un figlio, nonostante esistano espedienti normativi che consentirebbero di giungere allo stesso risultato attraverso strade diverse. Ma non era quello a cui miravano le due donne baresi che, chiedendo l’adozione di un profugo gambiano, sognavano così di creare la loro famiglia. Un tentativo che nei giorni scorsi si è concluso con il «no» della Corte d’appello, confermando la decisione assunta due anni prima dal Tribunale di Bari: l’adozione è riservata alle coppie unite in matrimonio.
Al di là del rigetto in senso formale, la sentenza (presidente Mitola, estensore Di Fonso) è la presa d’atto di un paradosso normativo non ancora risolto nonostante un vero e proprio monito arrivato lo scorso anno dalla Cassazione. L’Italia - avevano rilevato le Sezioni unite - non consente l’adozione a chi ha contratto una unione civile, eppure è tenuta a trascrivere le adozioni effettuate dalle coppie omosessuali all’estero, purché non rinvengano dalla cosiddetta maternità surrogata. Una scappatoia che a volte viene utilizzata per aggirare il problema, in alternativa alla strada ritenuta più semplice: quella dell’adozione effettuata da uno solo dei due componenti della coppia omosessuale.
Ma nella vicenda che nel 2018 era arrivata davanti al Tribunale di Bari, le due donne (che avevano contratto l’unione civile nel 2016) hanno tentato di stabilire il principio. Il giovane richiedente asilo, arrivato in Italia con uno dei tanti barconi della speranza (oggi è maggiorenne e studia in una università) ha incontrato casualmente le due donne con cui, nel tempo, si è stabilito un rapporto affettivo. Da qui l’idea di formare una famiglia.
Ma la legge non lo prevede. Il primo scoglio è rappresentato dal codice civile, che prescrive un divario di almeno 18 anni di età tra adottante e adottando (una delle due donne non rientra per pochi mesi): è un criterio che in molti casi i Tribunali hanno interpretato in maniera elastica. Resta poi il problema centrale, quello dell’impossibilità di adozione per le coppie omosessuali.
Dopo il «no» del Tribunale, l’avvocato delle due donne ha cercato in un certo qual modo di forzare la mano sfruttando la sentenza della Cassazione. Ma i giudici di appello hanno detto che non si può fare, pur prendendo atto del paradosso: la Cassazione ha riconosciuto che «l’orientamento sessuale non va ad incidere sull’idoneità all’assunzione delle responsabilità genitoriali non potendo il nucleo familiare ancorchè omogenitoriale rappresentare un elemento ostativo all’adozione». Tuttavia, è detto in sentenza, allo stato attuale del quadro normativo «il discrimen risiede proprio nell’aver la coppia omossessuale ottenuto nel merito una sentenza straniera e nel chiedere al giudice nazionale una sentenza atta ad ottenere la mera trascrizione della stessa nei registri dello Stato Civile italiano». Se insomma volessero portare a termine l’adozione, oggi le due donne baresi potrebbero farlo solamente all’estero.
L’avvocato delle due donne approfondirà i contenuti della sentenza e valuterà se esistono i presupposti per un ricorso in Cassazione. Ma - fa notare - in questa vicenda sono in gioco le vite di tre persone che si sono incontrate, che hanno un vissuto di un certo tipo: una vicenda intensa umanamente in cui è stato difficile pensare soltanto all’aspetto giuridico. Chiedere l’assunzione da parte di una sola delle due avrebbe probabilmente portato a raggiungere l’obiettivo, ma non avrebbe centrato il punto. Un punto che la legge italiana ancora non contempla.
[M.Scagliarini]
Spetta al parlamento
eliminare una discriminazione
che appare sempre più odiosa
di Alessandro Zan
La pronuncia barese ci conferma che non sempre la strada giudiziaria viene ritenuta dalle Corti la risposta adeguata per tutelare le istanze di persone omosessuali. Evidentemente il Collegio giudicante non ha considerato possibile estendere alle adozioni la cosiddetta clausola di equivalenza dettata dal comma 20 della legge 76/2016, che ha istituito le unioni civili: quella clausola, infatti, estende automaticamente le norme sul matrimonio alle parti unite civilmente, ma esclude da questo automatismo le norme sull’adozione. E tra queste norme c’è l’articolo 6, che riserva alle coppie eterosessuali sposate la possibilità di formulare la domanda di adozione.
Sicuramente altri Tribunali saranno chiamati presto a pronunciarsi su questo tema e, anzi, qualche giorno fa l’associazione Rete Lenford ha già pubblicamente preannunciato di essere in contatto con due coppie intenzionate a promuovere un contenzioso strategico proprio per questo tipo di istanze. Una volta incardinati i nuovi giudizi, è possibile sia che vengano adottate soluzioni interpretative differenti, in conformità a quanto affermato da alcuni autorevoli studiosi, sia che vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale, affinché sia la Consulta a vagliare la questione.
Sempre più spesso la Corte costituzionale si è fatta carico di interpretare i sentimenti della società civile e di eliminare veri e propri ostacoli alle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Anche in tema di adozione le Corti superiori hanno più volte rimarcato l’esigenza di tutelare, semplificare e incentivare l’istituto delle adozioni, per togliere il prima possibile bambini e bambine da situazioni penose e per dar loro una famiglia capace di donare amore e benessere.
Come si può pensare che una famiglia composta da due persone dello stesso sesso non possa essere capace di dare lo stesso affetto che la legge invece presume per le coppie eterosessuali sposate? La realtà delle tante famiglie arcobaleno è sotto gli occhi di tutti e tutte: si tratta di famiglie identiche alle altre, in cui è provato da tanti studi che il benessere dei bambini e delle bambine non presenta alcun tratto di differenza rispetto alle altre situazioni familiari. Di certo, comunque, rimane fermo che dovrebbe essere il Parlamento a fare la sua parte, eliminando una discriminazione che appare sempre più odiosa. Del resto, non è davvero singolare che anche un tribunale dica di andare all’estero e poi di tornare in Italia, perché in questo caso non ci sarebbe alcun ostacolo al riconoscimento dell’adozione, affermando contemporaneamente che in Italia questo ostacolo esiste e deve essere superato dal legislatore?