Ostaggi Selvaggi

Non solo spiagge, a Monopoli c'è il Purgatorio

ALBERTO SELVAGGI

Nella città turistica che fu regia, vescovile e aristocratica, una straordinaria realtà culturale e spirituale di tre secoli fa

Buongiorno, anime del Purgatorio, anche se non so quanto sia felice questa mattinata, essendo madida.
«Ciao, ragazzo sfatto. Ti porgo anche il saluto degli altri. Sono il notaio Giuseppe Tria, l’ultimo, 20 marzo 1832, tra quanti lasciarono la terra perpetuandosi in questa cappella di Santa Maria del Suffragio. E un collega notaio, che forse affrontò la scala celeste prima di me, 1° luglio 1829, mi è accanto. Non è donna Marianna Laporta citata sull’etichetta ai piedi di tutti quanti. È maschio. Ci sono nomi, date ingannevoli in questa sala, l’archivio in sagrestia può fornire le tracce. Quanto tempo è passato. Eri così bello. Di quelle rare graziosità fatate. Ti ricordo bene, tutti qui ricordiamo».


Incominciai a venire a Monopoli nella chiesa rettoria del Purgatorio, come comunemente la chiamano, in sella a una Vespa 50 bianca dall’età di 16 o 17 anni. Quando tutto era più libero e in questo luogo di culto sorto all’ombra della Cattedrale era possibile entrare fuori orario o, negli anni dei restauri, scrutare voi confratelli dalla strada attraverso la finestra nuda con grate.
«Non abbiamo più discendenti che vengono a pregare, soltanto i pii della confraternita Nostra Signora del Suffragio guidati dal presidente Giacomo Selicato. Dei visitatori ci restano gli aliti».

Monopoli, città regia e vescovile, non è soltanto mare, spiagge, splendide ville antiche e palazzi di un’aristocrazia urbana da Libro Rosso con il suo patriziato. Incontri una chiesa di pregio a ogni passo. Ma io non avevo mai visto una cosa del genere da queste parti. Non avevo mai visto voi, «morti in piedi», otto mummie non straziate da larve e una vergine imbalsamata. Siete la vita, mi pare.
«Dicci, dunque, a cosa dobbiamo questa ennesima visita dopo sette anni?».
Una ragazza, Antonia Valente, che a Monopoli organizza la rassegna Ritratti, mi aveva invitato al concerto di Richard Galliano. Indossava una gonna giallonera che mi piaceva molto e questa gonna era di sua madre. E mentre nel Chiostro di Palazzo San Martino, stupendo, fissavo la mano destra del grande fisarmonicista che si dibatteva sulla tastiera come un albatros impigliato, ho immaginato scheletrire le cinque estremità, tingersi della cenere di cui siamo fatti. E da quel 4 agosto ho ripreso a pensarvi.

Anche perché la pianista che ho menzionato ha per nome Antonia, come l’unica donna che eretta riposa qua. So che è assurdo ma è precisamente così.
«Non esiste niente di irrazionale. All’uomo compete tutto ciò che è immaginabile. E se è immaginabile accade».

Lei è un uomo di grande sapere, eccellenza, e inoltre conosce ciò che non ho visto ancora.
«E quel che non hai visto è la sola cosa che chiamiamo sapienza».

Però, già che mi trovo in via Padre Nicodemo Argento 16, volevo salutare gli altri ospitati che, talvolta, avevo l’impressione mi si appropinquassero, mentre fissavo le orbite cieche d’osso e cartilagini, i denti sfollati, le mascelle erose nelle teche in cui, mal protetti da agenti esterni, riposate.
«Consumarsi è una qualità».

Mio signore, salve. Mi chiedo che cosa penserà adesso, imponente, poggiato su un fianco come un castagno, dei poteri che ha esercitato quando gridava ancora e piangeva come noialtri.
«Niente. Quello che pensano tutti i miei pari. Sono Giovanni Amata Giaquinto da Caserta, Governatore di Monopoli, morto il 24 novembre 1793. Anch’io scelsi di venire mummificato in fede e maestà. Tutti noi della Confraternita di Nostra Signora del Suffragio abbiamo firmato con atto testamentario la donazione dei beni in cambio del privilegio che ci blinda dietro questi vetri incorniciati di bianco mediante quattro chiodi cristiani. Quattro come i teschi che segnano gli angoli della botola in marmo davanti all’altare maggiore nella chiesa di là, dove negli scolatoi il clima della cripta avviava la disidratazione naturale, completata nel sepolcreto sotterraneo del giardino privato. Quattro quante le vele che li riflettono in dipinti di scheletri di papi, re e condottiero dalla cupola che il sisma lesionò nel 1980. Quattro come i teschi della balaustra d’altare che stringono fra i denti il libro della vita terrena, destinato al vaglio di Nostra Signora Addolorata che guida questo regno di purificazione purgatoriale. Lei è lì, vivente in statua, a destra della navata centrale».

L’ho vista, trafitta, col volto di cera malata.
«Lei è qui, viatico per il Paradiso, sulla colonna sotto la campana nella cappella nostra di morti immortali. E anche nella sacrestia puoi incontrarla. La Madonna del Suffragio sta sospesa in chiesa di là nel quadro di Paolo De Matteis sull’altare centrale tra il cascame della cornice mirabolante. La vicinanza con il divino per chi ha fede è speranza. Ognuno decide come pagare».

Signora spenta e senza sguardo, salve. Di lei francamente non mi ricordavo. È lo stecco più minuto del coro ammantato di mozzette nere con lingue di fuoco ricamate.
«Antonia. Mi chiamo Antonia Minelli, morta nel 1792, se vi pare. Sono come le donne che vedi passare nel borgo vecchio. Ma più di quelle ho sicuramente pregato. Sono una semplice devota, non ho arte, persi meno liquidi dei confratelli quando mi deposero in vasca ad asciugare. Siamo allineati lungo questo perimetro secondo la data di decesso in senso orario».

E tu, che guardi a sinistra, verso gli altri quattro della seconda ala.
«Gennaro Mastropietro, morto il 16 gennaio 1786».

Mi basta. Scruto te, Onofrio Longo, spirato il 15 gennaio 1786, giorno prima del tuo vicino: sei il più deturpato, mascella squassata. Osservo te, Cesare Longo parente, il cartoncino listato annota 1° gennaio 1776. Pietro Insanguine, che sei in realtà un altro Insanguine, morto il 2 dicembre 1772, magari, che guardi a destra, nell’angolo accanto alla grande finestra aperta per dare frescura a quanto rimane, e attraverso la quale anche dall’esterno per voi si poteva pregare. Credo che tu non abbia accettato.
«Cosa non avrei accettato?».

Ciò che sei, ciò che siete, la morte che sono già.
«Ma non la vedi? Non vedi chi guardo?».

Sì, Dio del Cielo, la ricordo, lo so, sapevo, ma non volevo guardare l’ultima teca bassa quanto un’infante.
«Lei non è stata conservata per disseccamento naturale come noialtri. È imbalsamata. Non è fra noi anche se con noi. Plautilla Indelli di Francesco aveva due anni».

Indelli, conosco, casata beneficante di questo ospizio d’ossa e della città, come i Martinelli, i Palmieri.
«Esatto. Dacché le strapparono il velo dell’anima si rifiuta di emettere i versi gorgoglianti dell’età bianca. Figlia tua e di tutti quanti».

Dio mio che pena, non riesco a guardarla. Questa perla opaca che è la sua faccia, le protesi d’occhi gelate sull’infinità. Questo è il mondo e io non posso abbracciarla. Non posso baciarla, imprigionata nel vetro e nel legno inchiodato.
«La prima parola che apprese fu Dio, lo sai? Quella che viene dopo la parola Madre, nella gola di chi si vede spacciato».

Non lo sapevo, ma immaginavo. È paffuta, imbiancata, vestita a festa, cuffia ricamata: Dio ti abbia in gloria, se Dio ti ha fatto.
«Non agitarti, povero essere umano. È una questione di fatalità. Non puoi ottenere una reazione da chi ha dimenticato».

No, per la miseria. Sono un uomo, quindi un animale, un segno, un verso me lo darà.
«Povero padre mai stato».

Figlia, figlia di tutti, figlia del fato, vedo scorrere dalle tue ciglia un fiume gelato che imbocca la foce dell’anima e si fa strada affollando di lacrime del Purgatorio gli occhi di chi non è stato padre. Fagotto infelice, esile spirito decapitato.
«Devi tenere a mente il valore del tempo. Crediamo sia arrivato il momento che tu vada. La presenza tua non ci è necessaria. La nostra presenza va ricordata. Lascia libera Plautilla di non pronunciarsi e di non ascoltare: sentiamo che l’ami. Noi abbiamo impiegato tempo a convincerla che Nostro Signore che la strinse al cuore a due anni esiste e non è il sogno dei condannati. Ma siccome non parla non sapremo mai se ci ha dato fede e se questa fede l’ha fatta salva».

Privacy Policy Cookie Policy