IL RACCONTO

Bari, dopo la strada dedicata a «Varichina », un busto fluo

ALBERTO SELVAGGI

«Per cui vi esorto, o legionari Lgbt, queerrilleri del gruppo: dato che avete apposto la targa a Lorenzo De Santis, milite noto, fatto trenta, fate trentuno»

Beh, il busto a Lorenzo De Santis, ossia a “Varichina”, baresissimo omosessuale reietto del popolo, non l’hanno scolpito, come invece proposi in quel mio articolo che ne ricostruiva la storia. Ma su una strada cittadina, pur se su targa di carta, il nome del campione della militanza inconsulta Lgbt anni Settanta e Ottanta finalmente compare. L’hanno affisso in via Piccinni sotto il marmo della intitolazione toponomastica gli attivisti del “Queerrilla Group” nell’aurora del Pride Bari. E così il cerchio del destino s’è chiuso.

Io, francamente, non scrissi di questo allucinante, intelligente, ridicolissimo tomo sguaiato per difendere i diritti civili e le libertà comuni. Bensì perché ero certo che giornalisticamente avrebbe generato una scossa tellurica. In seguito, come qualcuno ricorderà, Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo da Roma decisero di trarne una docufiction, cosa che, dietro mie indicazioni, realizzarono per cavoli loro.

Varichina era in cima alle voci da sviluppare per “Quadretti Selvaggi”, una mia rubrichetta che, pur essendo io in forze nel reparto nazionale, veniva pubblicata ogni domenica in Cronaca di Bari. Nella totale assenza di dati, perfino sul cognome dell’antesignano di ogni Gay Pride, deposi questo tal Lorenzo nel lobo cerebrale che custodisce le cose da intraprendere un giorno mai più. Una sera di tuoni e di pioggia ne accennai al mio allora vicino di scrivania, Armando Fizzarotti: “Nessuno sa manco se Varichina è vivo o se è morto, non so chi inseguire, né dove giungere”. Egli si irrigidì: “In effetti ho chiesto anch’io, nessuno sa nulla, anche se è assurdo, manco Michele Emiliano da noi è famoso quanto era lui. Però, ti figuri? Se fosse morto, e non vivo in qualche casa di riposo del Nord, lo scoop sarebbe sparare nel titolo che non c’è più, cioè trovare la tomba e fotografare l’immagine sulla lapide, visto che manco in archivio esiste una foto”, e disegnò l’ovale con indice e pollice a cruna.

Da allora mi rimisi in moto e, navigando fra checche stagionate, portai a compimento l’opera. Tornai in redazione dopo giorni di ricerche con la lugubre inchiesta incentrata sulla vita e la morte del combattente noto ma ignoto. E alla capocronista Carmela Formicola annunciai: “Oggi dobbiamo fare una rubrica versione gigante, dobbiamo sconfinare dalla gabbia ristretta solita”. Lei: “Albevto (ha l’evve moscia), fai che cavolo vuoi”. Io: “Ho realizzato il mio scoop degenerato: Varichina, ho ricostruito tutto”. Ella: “E figuvati Albevto, non più che deviante poteva esseve se è tuo”. Il titolo che licenziammo fu: “Un busto per il mito diverso, viva Lorenzo Varichina!”.

Seguirono fiumane di lettere, laudi e gastemoni (“frocio!”). Io progettai realmente, con miei amichetti indecorosi, un blitz da performer: piombare al Libertà, in via Garruba, davanti al nido orrido suo, e montare di notte un busto 3D sintetico o in gesso dalle tinte fluo. Ma poi lasciai perdere per connaturata deboscia. Ho realizzato soltanto magliette psichedeliche con il volto di Varichina, portachiavi, bavaglino e simili oggetti inutili.

Per cui vi esorto, o legionari Lgbt, queerrilleri del gruppo: dato che avete apposto la targa a Lorenzo De Santis, milite noto, fatto trenta, fate trentuno. E nel frattanto vi pomicio tutti.

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