L'editoriale

Merito e rischio, il lodo Draghi non piace ai big del pallone

giuseppe de tomaso

Il tentativo di secessione da parte dei ricchi del pallone obbedisce a criteri protettivi e protezionistici, seppur ammantati di (falso) europeismo

Da quando si è insediato a Palazzo Chigi, il presidente Mario Draghi viene associato a due concetti: l’esigenza del merito e l’importanza del rischio. L’ex Mister Bce, peraltro, non si ritrae. Coglie ogni occasione per sottolineare gli effetti benefici generati dalla meritocrazia e dalla cultura del rischio, tanto da lasciare intendere che la sua azione di governo miri soprattutto a un ritorno, diciamo così, moral-pedagogico, più che a un succoso un consultivo realizzativo.
Ma la teoria del merito e la filosofia del rischio, in Italia e non solo in Italia, non attraversano il loro periodo più felice.

Qualche decennio addietro Indro Montanelli (1909-2001) osservò che «il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto». Un collega si permise di integrare la frase montanelliana aggiungendo, come istituzione altamente meritocratica, il mondo del pallone. Montanelli convenne. In effetti, anche se il sistema calcio non è un consesso frequentato da angeli, è impossibile fare carriera, sul terreno di gioco, a colpi di spinte, bustarelle e raccomandazioni varie. Valori e disvalori professionali emergono davanti a tutti, e vengono valutati in mondovisione. Impossibile aggirarli con le tipiche scorciatoie all’italiana. Le gerarchie sul campo corrispondono alle gerarchie effettive delle virtù calcistiche dei giocatori.

Idem il rischio. Se c’è un posto dove il rischio spadroneggia, questo è lo stadio. Presidenti e allenatori rischiano rispettivamente, come nessuno, patrimonio e reputazione, pur di allestire squadre in grado di ben figurare ovunque e di vincere qualche trofeo. In effetti molti patron fanno una cattiva fine firmando cambiali su cambiali come il cinematografico Presidente del Borgorosso Football Club interpretato da un grottesco, irresistibile Alberto Sordi (1920-2003). Ma vuoi mettere il brivido che dà il pallone. Il calcio è poesia, si estasiava Pier Paolo Pasolini (1922-1974).
Ora. Alcuni padroni e dirigenti sportivi delle squadre più titolate (non tutte, per fortuna) d’Europa hanno deciso che merito e rischio non contano più e che sarebbe meglio voltare pagina, anche per dare ossigeno ai loro bilanci societari, dissanguati dalla pandemia.

Qual è, infatti, il succo della proposta di dar vita alla Super-Lega europea del pallone se non quello di abolire, in una botta sola, merito e rischio, con buona pace degli appelli di Draghi? Che senso avrebbe assicurare il posto sicuro, nella Super-Lega a 15 club (fondatori) su 20 se non quello di scongiurare passi falsi e retrocessioni in classifica? Né serve controbattere che anche adesso, con l’attuale assetto dei tornei nazionali e internazionali, vincono sempre i soliti. Intanto i soliti nomi non hanno il primato assicurato e, poi, a volte hanno pure patito l’onta della bocciatura solenne, vedi il Milan in serie B, prima del Cavaliere, o vedi gli altri colpi di scena, altre clamorose battute d’arresto, nelle coppe europee.

La verità è che merito e rischio sono intrecciati come fratelli siamesi. Colpire uno dei due, equivale a colpirli entrambi. Il che avverrebbe, in automatico, con tanti saluti al fascino della partita, se andasse in porto lo scisma auspicato dagli indebitatissimi euro-eretici del pallone.
Per fortuna, la secessione ideata in Spagna, Italia e Inghilterra, non pare destinata a fare molta strada. Anzi, sembra essere già deragliata tra ripensamenti, contraddizioni e opposizioni.
La qual cosa non deve far dimenticare l’erroneo scatto di partenza dell’iniziativa: spiegare la mossa in nome della competizione, del mercato, del vinca il migliore.

Tutto il contrario dei propositi testé elencati. Il tentativo di secessione da parte dei ricchi del pallone obbedisce a criteri protettivi e protezionistici, seppur ammantati di (falso) europeismo; palesa una logica estrattiva, anti-inclusiva, da parte dei Poteri Forti del Sistema Calcio. Insomma, è un assalto da respingere non soltanto in nome della poesia (i gol) contro la prosa (i bilanci), ma anche e soprattutto in nome della competitività che da sempre accompagna le gare pedatorie. Quella competitività che ha fatto la fortuna del calcio, perché basata su merito e rischio, su premi e sanzioni, su promozioni e retrocessioni. Togliete questa materia al mondo di cui sopra e otterrete la fine di un’illusione, di un sogno, e anche degli stessi numeri aziendali, che non sopravvivranno mai alla farsa, alla parodia di una disciplina sportiva senza vinti e vincitori, anzi solo con vincitori programmati.
Ecco. Servirebbe una lezione, un lodo Draghi anche per i tenutari del pallone. Servirebbe una lezione Draghi sul debito dei club, spesso cattivo anziché buono. Servirebbe una lezione sui pilastri (merito e rischio) che rafforzano una costruzione.

Purtroppo, non è solo la nomenklatura politica a disdegnare il merito e il rischio. Anche gli apparati finanziari (non solo italiani) vogliono fuggire dalla competizione anche quando la competizione è tutto. Il che non è di buon auspicio per il dopo Covid. Se rischio e merito vengono schivati senza rossori, viene meno il propellente dello sviluppo. Non solo nello sport.

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