la storia
I ticket sanitari chiesti dopo 6 anni
Chiesto dalla «Asl Bt - Puglia salute» il pagamento per una prestazione medica «non effettuata» né disdetta ma prenotata nel 2014
Lo spauracchio si materializza nella cassetta della posta sotto forma di raccomandata recapitata a Canosa. Mittente «Asl Bt - Puglia salute». Nella busta, una lettera: «Gentile utente - si legge - dai dati in possesso di questa azienda è emerso che lei ha prenotato le seguenti prestazioni sanitarie».
La lettera prosegue con i dettagli della prestazione medica «non effettuata» né disdetta. Si riferisce a un «Esame completo dell’occhio» del gennaio del 2014. No, non è un refuso: è proprio del gennaio del 2014.
La lettera prosegue: «Per le prestazioni di cui sopra, ha omesso di comunicare la relativa disdetta entro le 48 ore precedenti. Così come previsto dalla normativa vigente la mancata disdetta comporta, infatti, l'applicazione a suo carico dell’equivalente del ticket previsto per la prestazione prenotata». Il testo e continua più in là con un intimidatorio «si ricorda che l'omesso pagamento di quanto richiesto, nel termine di 30 giorni dal ricevimento della presente, determinerà l'avvio della procedura di recupero coattivo di quanto dovuto con aggravio di spese a suo carico».
Lettere come questa ne stanno arrivano a iosa in tutte le case dei cittadini della Asl Bt, ma sembra anche di altre Asl pugliesi.
È iniziata una «caccia» ai «prenotatori seriali» o a quelli distratti o a quelli meno attenti, quelli cioè che hanno prenotato e che, per un motivo o un altro, non hanno effettuato la disdetta della prestazione sanitaria richiesta.
Questa «caccia» è plausibile, soprattutto per rispetto del lavoro dei medici e dei sanitari, e degli altri utenti che avrebbero potuto utilizzare le apparecchiature prenotate. Fin qui, tutto condivisibile.
Il problema è però un altro: questa caccia, iniziata in un momento di difficoltà generale per la pandemia, non solo è tardiva, ma anche impietosa se non crudele. Nella richiesta di pagamento è scritto infatti che «potrete inviare eventuali giustificazioni, producendo il codice e una prova di avvenuta cancellazione entro i termini di legge, attraverso i canali messi a disposizione degli utenti, o attestazione di pagamento o documentazione probante la sussistenza di motivi che rendevano impossibile la presentazione in ambulatorio per ricevere la prestazione». Ma la richiesta di documentazione avviene oltre sei anni dopo. Non solo: si segnalano richieste relative anche all’anno 2013.
Richiesta di somme non certo irrisorie, con pochi utenti che riescono oggi, a distanza di oltre sei anni, a ritrovare ricevute e appunti di «codici» di cancellazione di prenotazione.
Non solo: c’è anche chi, pur producendo il codice della disdetta, quello ottenuto telefonicamente, ha scoperto solo oggi che «non era stata accettata», «per un ritardo, scoperto solo sei anni dopo, - ci dice un utente - una beffa assurda perché, davanti alla impossibilità di disdire forse avrei forse potuto presentarmi, chi lo sa?». Insomma chi ha pensato di aver disdetto regolarmente scopre solo oggi che quel giorno aveva solo perso tempo. Sei anni dopo.
Un altro utente racconta (anzi, ricorda a stento) invece di essersi presentato di prima mattina al Cup di Canosa, 48 ore prima della visita prevista e da disdire, ma che, per problemi tecnici ai computer del Cup, aveva atteso in fila dalle 8 fino alle 10.30, prima di poter effettuare la disdetta. Tutto a posto? Nient’affatto. Anni dopo ha scoperto che quelle due ore di attesa avevano reso nulla la sua disdetta, avendo «sforato» i termini, per aver dovuto attendere in fila per due ore. E, beffa ulteriore, lo ha scoperto «solo» sei anni dopo.
Eppure nel foglietto della disdetta cartacea (e anche secondo quanto viene riferito telefonicamente) si consiglia chiaramente di «conservare la ricevuta», per «almeno sei mesi». Sei anni dopo o perfino sette, ricordare o ritrovare foglietti e appunti è assurdo per una richiesta a dir poco tardiva. Questo vale per i giovani, e ancor di più per gli anziani.
Resta l’amarezza che la pioggia di avvisi di pagamento, fatta a distanza di sei anni e in questo momento pandemico, appaia un tentativo in extremis di far cassa, di recuperare - forse - un «tesoretto», disperso per il mancato controllo di qualche anno fa, quando la sanzione sarebbe stata, per tempestiva e giusta, senza quel sapore di una persecuzione.