L'analisi

Il pericolo assuefazione allo Stato sussidiario

Giuseppe De Tomaso

L'idea che lo stato salvatore debba provvedere a tutto e che la stagione dei sostegni pubblici a raffica possa o debba proseguire anche all’indomani della ritirata o della sconfitta del Covid, è tutt’altro isolata o sporadica

Premessa numero uno. L’assedio da parte del Covid è così globale, avvolgente e travolgente che neppure un triumvirato internazionale composto da redivivi onnipotenti del calibro di Alessandro Magno (356-323 avanti Cristo), Giulio Cesare (100-44 avanti Cristo) e Napoleone (1769-1821) sarebbe riuscito a fronteggiarlo, arruolando i migliori terapeuti su piazza. Figuriamoci gli odierni singoli governi.
Premessa numero due. Gli italiani sono così imprevedibili (e ingovernabili) che, quando una crisi economica appare più inarrestabile di un fiume senza argini, riescono a dare il meglio di sè, vedi lo stupefacente balzo del Pil (+16,1%) realizzato nel terzo trimestre 2020.
Morale. Nessuno possiede la strategia vincente nei piani di contrasto della pandemia. Tutt’al più, in attesa dell’invocatissimo vaccino, si possono ridurre i danni, grazie a scelte intelligenti, felici o, semplicemente, fortunate. Di conseguenza, non è da Cassandre matricolate mettere in preventivo scenari ancora più foschi rispetto al bilancio di morti e contagiati registrati finora.

Così come non deve indurre a improvvisa e immotivata euforia lo strepitoso dato sul boom del Pil in luglio, agosto e settembre, come già avvertito dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha indicato nubi minacciose all’orizzonte, pregando tutti a tenere i piedi per terra e di uscire di casa solo con un ombrello pronto alla bisogna.
Le vicende pubbliche e private di questo sventurato 2020 dimostrano due cose: una parte consistente del Belpaese pensa, sotto sotto, che lo stato debba prendere tutto in mano trasformandosi in stato totale e che la condizione salariale debba tramutarsi in condizione statale; un’altra parte della popolazione ritiene, invece, che non tutto è perduto, che anche questa crisi passerà, e che grazie a un impegno lavorativo addizionale la produzione ritornerà a livelli degni della migliore storia industriale nazionale.
La speranza è che il rinnovato, accentuato interventismo dello stato e dei poteri pubblici, interventismo giustificato dall’eccezionalità del dramma collettivo provocato dal virus, non instilli nell’opinione pubblica la convinzione sull’irreversibilità dell’economia dei sussidi. La speranza è che la società italiana, nonostante i colpi mortali inferti dal morbo, non abbia smarrito quelle doti di intraprendenza e di dinamismo che l’hanno portata, unica tra le nazioni, a produrre eccellenze (ora intellettuali, ora artistiche, ora imprenditoriali, ora scientifiche) in tutte le epoche storiche. Infatti. Nessun altro Paese al mondo può vantarsi di un merito equivalente: quello, appunto, di aver lasciato tracce memorabili del proprio ingegno in ogni periodo vissuto dall’umanità.
E però l’idea che lo stato salvatore debba provvedere a tutto e che la stagione dei sostegni pubblici a raffica possa o debba proseguire anche all’indomani della ritirata o della sconfitta del Covid, è tutt’altro isolata o sporadica nel panorama politico e culturale della Penisola.
Nemmeno i fiaschi (più numerosi di quelli di una cantina sociale) accumulati dagli apparati pubblici in questi mesi - ultimo, in ordine di tempo, la penuria del vaccino anti-influenzale - riescono a persuadere vasti settori del Paese del fatto che lo stato, diversamente dal mercato, non possiede mai tutte le informazioni necessarie al reperimento di un bene e che, ad esempio, la carenza dei vaccini contro l’influenza non dipende da una lacuna mentale, da un deficit intellettivo del funzionario preposto, ma dalla constatazione che è letteralmente impossibile per un’autorità conoscere tutti gli elementi utili e necessari al calcolo economico. A volte càpita di azzeccare la scelta giusta. Ma il più delle volte no, dal momento che, per citare don Luigi Sturzo (1871-1959), lo stato non è strutturalmente in grado di mandare avanti neanche la bottega di un ciabattino. Ovviamente, ci sono compiti, mansioni, che toccano pressoché esclusivamente allo stato, vedi la costruzione di infrastrutture (in primis: scuola e sanità) materiali e immateriali. Uno stato equanime dovrebbe realizzare queste opere in modo imparziale e, se possibile, secondo criteri risarcitori nei confronti delle aree (Sud) tuttora penalizzate senza remore e senza pudori. Ma qui apriremmo un altro fronte.
Limitiamoci a riproporre l’auspicio sopra accennato, ossia che l’economia sussidiata resa inevitabile dall’invasione pandemica non si trasformi da intervento straordinario in intervento ordinario a tempo indeterminato, e soprattutto che la statalizzazione del sistema produttivo non sfoci in una tendenza irreversibile, corroborata da un malinteso senso comune. In tal caso, come succede per i pregiudizi, non ci sarebbe nulla da fare: sarebbe complicato assai cambiare rotta e tornare indietro. Al confronto, molto più agevole, rubiamo la frase di Albert Einstein (1879-1955), risulterebbe la spaccatura dell’atomo. E comunque l’exploit del Pil nel terzo trimestre 2020 dovrebbe costituire motivo di conforto e fiducia. L’Italia c’è.
P.S. Proprio il caso del vaccino anti-Covid conferma che gli stati non dispongono delle informazioni indispensabili alla produzione di beni di massa, in questo caso dell’antidoto risolutivo contro il Coronavirus. Infatti, nella madre di tutte le battaglie contro la pandemia, gli stati si sono affidati ai gruppi privati, su cui pure premono in ogni momento per accelerare il varo della miracolosa sostanza. Le aziende farmaceutiche private, invece, vanno con i piedi di piombo, perché temono contraccolpi giudiziari, botte reputazionali e salassi finanziari in caso di flop delle prime immunizzazioni.
Ciò per dire come funziona l’economia anche nei periodi fuori-programma come quello che stiamo vivendo.

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