L'EDITORIALE

Il punto debole dell’alleanza giallorossa

giovanni valentini

Se il M5S non riuscirà a passare dalla vecchia logica del «contratto» di governo sottoscritto a suo tempo con Matteo Salvini a quella di un accordo programmatico con il Partito democratico e le altre forze dell’attuale maggioranza, si condannerà da solo all’autoisolamento

Si dice comunemente “tallone d’Achille” per dire il punto debole di una persona, di un’organizzazione o di un sistema. Secondo la mitologia greca, il protagonista dell’Iliade sarebbe stato immerso da bambino nelle acque del fiume Stige, affinché diventasse invulnerabile. Ma la madre Teti dovette tenerlo per il tallone che rimase perciò l’unica parte vulnerabile. E così, durante la guerra di Troia, Paride – venuto a conoscenza del suo punto debole – uccise Achille colpendolo con una freccia proprio sul calcagno. La metafora può tornare utile per essere applicata all’attuale maggioranza di governo. Lo schieramento giallorosso è uscito rafforzato, principalmente per merito del premier Giuseppe Conte, dalla trattativa con l’Unione europea sul Recovery Fund che ha assegnato all’Italia una dote di 209 miliardi di euro per superare la crisi post-Covid e avviare la ripresa.

Ma sono bastati già pochi giorni per far riemergere dissensi e tensioni tra i partner della coalizione: dal Mes, il controverso Meccanismo europeo di stabilità che potrebbe erogare all’Italia un prestito di 37 miliardi a tassi vantaggiosi per le spese sanitarie “dirette o indirette”, fino alla legge elettorale e alle alleanze per le prossime regionali.

Qual è, dunque, il “tallone d’Achille”, il punto debole, dell’attuale maggioranza? Al netto delle rivalità elettorali e anche delle convenienze o ambizioni individuali, la debolezza deriva da un vizio d’origine. Quello, cioè, di non essere nata come una vera alleanza e di non essere riuscita ancora a diventarlo. Tra Pd e M5S, manca o difetta alla base un’omogeneità di cultura politica che possa amalgamare le due componenti principali.

Per quanto i Cinquestelle siano cresciuti e maturati in questa esperienza di governo, restano fondamentalmente una forza antagonista, se non proprio anti-sistema, entrata in Parlamento con l’intenzione dichiarata di “aprirlo come una scatoletta di tonno”. E oggi, sondaggi alla mano, i “grillini” spendono nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama una moneta fuori corso.

Vale a dire un potere elettorale che non hanno più e difficilmente riavranno in futuro.

È indicativo, a questo proposito, il “caso Puglia”. Tutti sanno che il governatore uscente Michele Emiliano ha dimostrato nei loro confronti, a torto o a ragione, grande attenzione e disponibilità. E al di là dei suoi meriti o demeriti, si presenta alle elezioni regionali di settembre come il campione del centrosinistra, contrapposto al “rientrante” Raffaele Fitto transitato nel frattempo da Forza Italia al Popolo della Libertà per approdare infine nelle file dei Fratelli d’Italia. Se il M5S non appoggia Emiliano, o almeno non accetta un accordo di desistenza con il Pd, si assume dunque la responsabilità di compromettere la sua rielezione, già insidiata dal distacco di Italia Viva. E dove lo trovano, i Cinquestelle, un candidato più affine da sostenere in ragione di un’alleanza o di una convergenza con il centrosinistra?

Ecco perché il “caso Puglia” assume il valore di un test, un banco di prova, per il futuro dell’alleanza giallorossa. Se il M5S non riuscirà a passare dalla vecchia logica del “contratto” di governo sottoscritto a suo tempo con Matteo Salvini a quella di un accordo programmatico con il Partito democratico e le altre forze dell’attuale maggioranza, si condannerà da solo all’autoisolamento, a meno di voler tornare un’altra volta sui propri passi per cambiare di nuovo fronte e ricongiungersi con la Lega. A rischio e pericolo, in quest’ultima ipotesi, di perdere ulteriormente credibilità e consenso.

È improbabile, tuttavia, che il premier Conte – invocato recentemente come futuro capo del Movimento – possa rendersi disponibile per un’operazione di questo genere, dopo il severo j’accuse lanciato un anno fa nell’aula del Senato contro Salvini in seguito all’apertura della crisi del governo gialloverde. Forte del successo europeo, il presidente del Consiglio s’è conquistato ora un’autorevolezza e un seguito anche a livello internazionale e difficilmente si presterebbe a un doppio salto mortale senza rete. A lui può spettare, piuttosto, il compito di passare dal ruolo di “mediatore” a quello di “federatore”: cioè di aggregatore e promotore di una coalizione più omogenea, e magari coesa, in grado di competere con lo schieramento di centrodestra che – per la verità – non è immune da divergenze e divisioni interne.

Qui bisognerà fare i conti, però, con la riforma della legge elettorale: la “madre di tutte le leggi”, perché ne condiziona e determina la formazione e l’approvazione. Questa è la “cruna dell’ago” della politica italiana. Se prevarrà – come sembra – la preferenza per il sistema proporzionale, con o senza lo sbarramento al 5 per cento, la frammentazione dello schieramento politico sarà destinata fatalmente ad aumentare, attribuendo un potere di veto (o magari, di ricatto) ai partiti minori delle rispettive coalizioni. Se invece il Parlamento, in un soprassalto di consapevolezza, dovesse riesumare il sistema maggioritario in qualche forma opportunamente riveduto e corretto, allora ne trarrebbero beneficio la governabilità e la stabilità in funzione dell’alternanza e del ricambio alla guida del Paese. Ma il fatto è che il proporzionale si concilia meglio con l’incertezza e il disorientamento generale delle forze politiche, lasciando aperte così le “porte girevoli” dell’opportunismo e del trasformismo sia a destra sia a sinistra. E alimentando, purtroppo, il rischio dell’ingovernabilità e dell’instabilità.

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