L'analisi

Quell’ora di catechismo sul futuro che verrà

Michele Partipilo

La «Pasqua» che più ci preme in questo momento è capire quando potremo tornare alla vita di prima, quando potremo riprenderci quelle libertà che neppure pensavamo di avere e che ora ci mancano fino a toglierci il respiro

Al catechismo il vecchio parroco insegnava che la parola Pasqua vuol dire «passaggio». Il passaggio di Gesù dalla morte alla vita, certo, ma per gli uomini anche il passaggio dal peccato a una rinascita spirituale. Un cambiamento nelle scelte e nelle azioni. Questo spiegava don Martino a un gruppo di ragazzini che fingevano d’ascoltarlo, ma che pregustavano il momento di quando sarebbero scappati fuori a giocare per strada. Accadeva più di mezzo secolo fa, ma è quello che stiamo rivivendo oggi.

La «Pasqua» che più ci preme in questo momento è capire quando potremo tornare alla vita di prima, quando potremo riprenderci quelle libertà che neppure pensavamo di avere e che ora ci mancano fino a toglierci il respiro. Tutti dicono che dopo non sarà più lo stesso. È una banalità, è ovvio che sarà così. Nella storia non c’è stato mai il prima di un evento uguale al dopo, altrimenti non c’è l’evento, prevale il continuum della vita quotidiana. L’evento c’è ed è pure devastante con il suo carico di vite spezzate, di paure profonde, di miserie angoscianti. A maggior ragione, allora, il dopo dovrà essere diverso.

Occorrerà valutare, scegliere, separare: tre azioni che gli antichi greci indicavano con il verbo krino, quello stesso da cui origina la parola crisi. Ogni crisi per essere superata impone un cambiamento e ora è il tempo di mettere mano a costruire un futuro che per forza di cose dovrà essere diverso.

Un primo dato che questa catastrofe ha evidenziato è la necessità di ripristinare il primato della politica. Aver sottomesso ogni scelta al dominio dell’economia ha portato a tagliare i posti letto negli ospedali, ad avere meno medici e infermieri, meno attrezzature, meno laboratori. Ora dobbiamo trasformare i capannoni delle fiere in centri Covid per l’emergenza, convertire industrie che producevano auto e vestiti a realizzare ventilatori polmonari e mascherine. Un’economia cieca e dissennata ha portato a concentrare la produzione mondiale di mascherine in due-tre aziende in tutto il mondo. E guarda caso, con un’intelligenza napoleonica, proprio dai territori di quelle aziende il generale Coronavirus ha cominciato il suo attacco, mettendole fuorigioco e lasciando gli avversari senza mezzi di difesa. Non possiamo continuare con questi errori.

Ora si affaccia un rischio analogo. Nell’ansia, legittima, di voler trovare subito la strada giusta della salvezza ci si affida testa e piedi alla scienza. Ma non possono essere gli scienziati a guidare il mondo. Il loro lavoro, le loro scoperte, i loro suggerimenti sono fondamentali in ogni settore della nostra vita, non solo in quello medico. Se oggi possiamo contrastare la pandemia, se possiamo fare il telelavoro, se possiamo continuare a vederci e a parlarci a distanza lo dobbiamo alla scienza e alla tecnologia.

Ma sono strumenti, non sono lo scopo per il quale vivere. Presi dall’emergenza non ci stiamo rendendo conto dei tanti beni che stiamo sacrificando, non solo quelli economici. Stiamo rinunciando al diritto alla vita privata in nome dei controlli, dell’impedire i contagi. Ma non si può dimenticare che la privacy è la faccia visibile della libertà di ciascuno. Quando sarà tutto finito e ricominceremo ci renderemo conto anche dei danni collaterali provocati da quelli che oggi ci appaiono come rimedi indispensabili. Allora, la scienza come l’economia devono essere al servizio dell’uomo ma è a lui, cioè alla politica – l’arte che attiene alla città, dicevano i Greci – che competono il dovere e la responsabilità di organizzare le vite di tutti. Non possiamo più fidarci di algoritmi o di bizzarre leggi economiche per costruire il nostro futuro.

Ma anche la politica deve avere la sua «pasqua». Deve recuperare il suo senso originario di gestire la cosa pubblica, non di ricercare il consenso a ogni costo. Abbiamo toccato con mano quanti danni abbia provocato in materia sanitaria la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione. Queste settimane sono state una lite continua fra governo e Regioni su come si dovesse contrastare il virus. Una babele legittimata da una scelta politica frutto di compromessi e lotte sotterranee. La politica non si fa con i like, sulla pelle della gente. Si fa per la gente, se se ne ha la capacità. Altrimenti si può stare a casa.

Allora, fra i pochissimi «meriti» del Coronavirus, c’è quello di averci mostrato dove abbiamo sbagliato e dunque da dove ricominciare. Sarà quella la nostra piccola «pasqua» in un tempo infelice, lastricato di morti e di sofferenze. Sono i giorni tristi della Passione, come ricorda la Chiesa, ma alla Passione segue il momento della resurrezione e della gioia. Anche questo diceva don Martino ai suoi ragazzini del catechismo, come noi impazienti di uscire per strada.

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