Il punto

Se il «reddito» non produce reddito elettorale

Giuseppe De Tomaso

Che possibilità di salvezza ha un Paese che toglie i soldi a chi lavora per darli a chi non lavora?

È vero che la politica è sempre di più lotta tra galli. È altrettanto vero che i nuovi partiti sono a-programmatici e che le appartenenze valgono più della conoscenza e delle conoscenze, così come è sempre più vero che la politica oscura le politiche fino a degenerare in non politica. Il che sta a significare che le fazioni crescono e si azzuffano sul nulla, eccitate da quel ring permanente che si trova nell’agorà della Rete.
È altrettanto vero però che la miscela esplosiva tra il web e il nullismo politico divora i propri aedi con la stessa famelicità con la quale Crono divorava i propri figli. Né è sicuro che un decreto ben congegnato possa produrre pingui raccolti in cabina elettorale. Scriveva il grande scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942) che «i sentimenti sono importanti quanto il diritto costituzionale e i decreti non sono la cosa più seria del mondo».

Prendiamo il caso del reddito di cittadinanza, il trofeo simbolico della battaglia pentastellata. Ok. I sentimenti favorevoli c’erano, il che ha consentito che essi si trasformassero in provvedimenti ad hoc. Ma c’erano anche i sentimenti sfavorevoli, tutti basati su una domanda facile e retorica: che possibilità di salvezza ha un Paese che toglie i soldi a chi lavora per darli a chi non lavora? Non sarebbe più saggio (e serio) creare condizioni, escogitare incentivi perché si generi lavoro vero, non mance assistenziali?
L’impressione, alla luce della pesante batosta subita dai grillini nelle regionali sarde, è che i sentimenti sfavorevoli al reddito minimo fossero più diffusi dei sentimenti favorevoli, e che i relativi decreti, proprio sulla scia di quanto indicava Musil, non si siano rivelati la cosa più seria del mondo. Basti pensare ai marchingegni, ai trucchi, alle scorciatoie, a tutte le trovate per riuscire a intercettare l’obolo di Stato: cambi repentini di residenza, compravendite sospette, divorzi improvvisi eccetera.
Che vogliamo dire? Che forse c’era da aspettarselo. Era inevitabile, cioè, che una fascia cospicua della popolazione lavorativa avrebbe, anche nel Sud, accolto mal volentieri l’elargizione del reddito di cittadinanza e le relative appendici di malcostume, assai frequenti in una nazione dal modesto senso civico.


Forse è sbagliato attribuire al reddito di cittadinanza prima il merito di aver portato i 5 Stelle alle stelle della politica italiana e successivamente il demerito di aver costretto il Movimento al più spettacolare testacoda elettorale di sempre. Ma è indubbio che il reddito minimo caratterizzi la creatura inventata da Beppe Grillo come la Gioconda caratterizza Leonardo da Vinci (1452-1519). Specie se i resoconti poco entusiastici sull’esordio del «reddito» si accompagnano a prospettive di crescita economica più sconfortanti di due calci di rigore consecutivi concessi alla squadra avversa.
La patrimoniale sarà pure, come viene raccontata, un’aspirazione interessata e malandrina di chi, all’estero, vuole che lo Stato italiano metta mano con forza alle tasche private dei suoi contribuenti. Ma quando i conti pubblici sono quelli che sono, non è che le alternative a un rapace prelievo fiscale nottetempo siano numerose come le isole greche, visto che di tagli agli sprechi della spesa pubblica nessuno vuole sentire parlare, anzi lo sport più praticato è proprio quello di aggravare il debito pubblico. E se non si taglia, si tassa. E se si tassa, più d’uno s’arrabbia, dopo essersi impoverito.


Se Matteo Salvini, che pure attraverso quota 100 sulle pensioni ha dato il suo contributo all’appesantimento della finanza pubblica, è riuscito però a slegare la Lega dalle corde economiche nazionali preferendo concentrarsi sulla catena dei migranti, Luigi Di Maio invece è rimasto abbarbicato, come l’edera, al muro dell’economia, una parete più scivolosa di una lastra di ghiaccio.
Per giunta in ballo non c’è solo la patrimoniale. All’orizzonte si profila anche un aumento dell’Iva, per non dire di tutte le addizionali locali, sdoganate nell’ultima legge di bilancio e di nuovo in agguato.
Finora, l’esecutivo in carica è riuscito a raccontarsi più come squadra di lotta che di governo. Ma questo ossimoro non può reggere all’infinito, specie se l’occupazione diminuisce, le case continuano a svalutarsi e i risparmi rischiano di incagliarsi come la nave turca a Bari davanti alla spiaggia di Pane e Pomodoro.


Del resto, non è un caso che lo stato maggiore grillino abbia suggerito o imposto il silenzio proprio al dirigente simbolo dell’antagonismo al sistema: Alessandro Di Battista. Ha intuito, la coppia Di Maio-Casaleggio, che forse è il momento di abbassare i toni e di fare politica più con la testa che con il cuore, più con la razionalità che con la passionalità.
Non sappiamo che fine farà il tandem Di Maio-Salvini, anche perché la politica italiana è come il campionato di calcio: quasi ogni domenica si gioca. Non si ha molto tempo per pensare al fugace ieri. Domenica scorsa si è votato in Sardegna, il 24 marzo si voterà in Basilicata, a fine maggio si voterà per l’Europa e per il rinnovo di molti sindaci. Insomma il daffare e le distrazioni non mancano mai.
Resta il fatto che, in una fase (e concezione) della politica più liquida dell’acqua, diventano sempre più brevi le stagioni dell’amore tra i vecchi elettori e i nuovi eletti. Il che oggi sta penalizzando Di Maio e preoccupando lo stesso Salvini.

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