Musica
Dalla Puglia a Manchester per la reunion degli Oasis: cronaca di una notte storica, la rivincita della «generazione di mezzo»
Una «pagina di diario» racconta la trasferta sotto l’inaspettato sole di Heaton Park, con i fratelli Gallagher di nuovo insieme «a casa loro» per un concerto epocale
Undici luglio 2025, Manchester. Sono passate da poco le dieci di sera, il sole è calato da qualche minuto, finalmente gli 80mila del pubblico di Heaton Park trovano un po’ di refrigerio in quest’estate inglese insolita e bollente. Sul palco ci sono gli Oasis, Liam e Noel Gallagher insieme: è la terza data della storica reunion, la prima «a casa loro». «Champagne Supernova» chiude la scaletta, con una cascata di fuochi d’artificio. Sto piangendo da ore, per la gioia di questo giorno e per la tristezza che sia finito. Accanto a me una banda di corpulenti ultras del City, che mi fanno sentire una nanerottola nonostante il mio metro e settantacinque, piangono insieme a me. Ci abbracciamo, siamo sporchi, sudati da ore, siamo britannici, americani, italiani, coreani, argentini, siamo i fan che li seguono da sempre, siamo quelli nati troppo tardi per vederli dal vivo all’apice del successo, siamo quelli che li hanno già visti più volte in passato, insieme o separati, siamo quelli che aspettavano questo giorno da tutta la vita. Qualsiasi cosa siamo, in quel momento siamo stati tutti uguali, tutti fratelli, a cantare gli inni di quella generazione di mezzo che nella musica degli Oasis ha sempre trovato un posto dove riconoscersi.
Queste lacrime condivise sono l’immagine più bella che mi porto dietro dalla trasferta di Manchester, una storia che inizia quasi un anno fa, quando il 31 agosto sono riuscita senza neanche troppo sforzo ad accaparrarmi uno dei preziosissimi ticket che hanno fatto impazzire mezzo mondo. Una botta di fortuna sognata e insperata, a cui sono seguiti non pochi ostacoli, ma oggi, a capitolo chiuso, posso dire che ne è valsa la pena, e sono rientrata a casa appagata, soddisfatta, felice. Scrivo questo resoconto in prima persona come se fosse una pagina di diario, che ho deciso di regalare agli affezionati lettori di GazzettaMusic (nonostante il biglietto - lo specifico in caso non fosse chiaro - l’abbia pagato di tasca mia, grazie al cielo a prezzo-base), ai quali consiglio di mettersi comodi se hanno deciso di andare avanti, in quanto non sarà certo un racconto breve.
Ho nominato la parola «ostacoli» non a caso. Il primo è stato senz’altro il fattore trasporti, quel volo comprato appena una settimana dopo aver preso il biglietto (un comodissimo Bari-Roma-Manchester) e cancellato cinque mesi fa, con una mail arrivata alle due di notte che non mi ha più fatto dormire. Un bel respiro, riprenoto, pensavo di essere a posto. Ma non avevo fatto i conti con l’unico giovedì dell’anno in cui il comparto aereo decide di scioperare (di solito accade il venerdì). Sì, proprio giovedì 10 luglio, il giorno della mia partenza. Sciopera tutta Easyjet, indovinate con che compagnia devo partire? Modifico il mio volo, che si trasforma in un comodissimo Ciampino-Manchester delle 6.20 del mattino, preso nonostante incendi e imprevisti vari (avere amici veri che ti accompagnano in aeroporto all’alba è un regalo della vita da tenersi stretto). Finalmente alle 8.10 ora locale sono su suolo inglese. Una bella litigata al telefono con il servizio clienti per la e-Sim che non funziona (occhio, il roaming in UK da marzo non c’è più con alcune compagnie, inclusa la mia), ma da questo momento è tutto in discesa. Inizia la magia. Ero già stata a Manchester per un altro concerto lo scorso novembre, e nonostante sia una città che molti non apprezzano io la trovo incredibilmente affascinante, piena di contraddizioni, con quell’accostamento di antico e moderno insieme, una «Bitter Sweet Symphony» (ci arriveremo). E poi è oggettivamente organizzatissima: trasporti eccellenti, indicazioni precise, persone preparate ad aiutarti, negozi smart. Una città che si è letteralmente inchinata davanti alla potenza degli Oasis (e alla portata dell’indotto economico scatenato da questa operazione), e lo si percepisce in ogni angolo, nelle vetrine a tema, nelle locandine in mezzo alla strada, nella musica che si sente ovunque, nella quantità di gente da ogni parte del mondo che invade le vie sfoggiando magliette, bandiere, cappellini e un entusiasmo contagioso e travolgente.
Lascio i bagagli e mi precipito al negozio del merchandising ufficiale nel modernissimo distretto di Spinningfields. Grazie a un gruppo Telegram di italiani con cui nei mesi precedenti ci siamo scambiati un po’ di informazioni, avevo prenotato uno slot orario per visitarlo (ma si poteva entrare anche facendo un po’ di fila): primo piano a monopolio Adidas (main sponsor assoluto), impossibile non lasciarsi trascinare dalla bellezza di magliette e cappellini, a prezzi tutto sommato onesti nonostante la situazione; piano terra regno di vinili in edizione limitata, poster, calamite, adesivi e ricordini vari, compresa la possibilità di farsi photoshoppare una propria foto sulla copertina di uno degli album degli Oasis (idea un po’ trash, ma all’estero le cose sembrano sempre più belle). Lascio il negozio e mi dirigo a Market Street, la «via dello shopping» di Manchester, dove alleggerisco ancora il portafoglio nell’altro flagship store tutto Adidas, con una maglia da calcio speciale azzurra, logo Oasis davanti e la possibilità di scrivere il proprio nome sulla schiena (avevano finito le «A», e quando ho pensato che avrei potuto optare per «White» era troppo tardi). Cala la sera e dopo un breve riposo l’appuntamento è al Definitely Maybe Afflecks Bar, zona Northern Quarter, un pub-museo completamente dedicato ai Gallagher (ci sono biglietti e locandine appiccicati perfino sul soffitto): il tasso alcolico è tanto alto quanto calda è l’atmosfera, si cantano le canzoni tutti insieme, si beve, un giusto riscaldamento per il giorno dopo. Alle dieci sale sul palco l’italiana cover band dei Rubbish (il cantante replica perfettamente l’accento di Liam). L’aria è elettrizzante, appollaiata su una balaustra umidiccia cerco di non perdere la voce su «Columbia» e «Stop crying your heart out» e mi guardo intorno: sento di essere in mezzo alla mia gente.
Undici luglio. «Today’s the day that all the world will see». Sui siti di tutto il mondo compare l’immagine olografica nei cieli di Manchester con il logo degli Oasis. Stanno tornando a casa. La mattinata scorre rapida, per strada c’è un’esilarante reunion di tutti i sosia di Liam e Noel, e ci si prepara accuratamente per uno show che, lo so, sarà un’importante prova fisica. Fa un caldo impensabile, e mi do una pacca sulla spalla per aver deciso all’ultimo di buttare nello zaino un top e un paio di pantaloncini, ovviamente Adidas (insieme a un giubbotto che non ho mai tirato fuori). Ore 13.30 si va verso Heaton Park, zona Nord. L’intenzione, avendo un biglietto standard (non per il pit davanti al palco, per intenderci), è quella di provare a entrare prima delle 17, per accaparrarmi uno «spot» adeguato, «il più vicino tra i lontani». Anche perché non vorrei mai perdermi i due opening act, tra i simboli del mio amato britpop, i Cast alle 18 e Richard Ashcroft alle 19. L’organizzazione della città è davvero ineccepibile: la fila per i bus mi sembra troppo lunga, e per paura di rimanere bloccata nel traffico opto per il tram. In meno di mezz'ora sono a destinazione e mi metto in fila: i cancelli aprono inaspettatamente trenta minuti prima, e io che ero pronta a 3 o 4 ore di coda per entrare, alle 14.32 sono praticamente in transenna. Siamo ormai una comitiva, italiani, argentini, qualche inglese, facciamo amicizia, stendiamo i teli per delimitare il nostro angolo di terreno, e comincia la lenta e gioiosa cottura sotto il sole di Heaton Park. Crema solare in grandi quantità, litri e litri di acqua, bevuta, sudata, gettata in testa per rinfrescarci, soprattutto gratis, fornita dall’organizzazione con fontanelle e punti di ricarica, come dovrebbe essere per ogni concerto di questo tipo (Italia, prendi esempio). Cappellini all’occorrenza, bibite e birre fresche, baracchette con cibo per tutti i gusti, le ore passano veloci quando si parla tutti la stessa lingua, quella degli Oasis.
Alle 18 salgono i Cast, una signora piuttosto avanti con l’età accanto a noi, outfit fuxia fosforescente, è la più carica di tutti. Dietro di noi un ragazzo già alticcio fa una torre di bicchieri vuoti, all’interno ci spara un fumogeno rosa, fosse stato un gender reveal sarebbe stato divertente. Alle 19 in punto è il momento di Richard Ashcroft, la scaletta è la stessa delle prime due date di Cardiff, le hit dei Verve («Lucky Man» da brividi) e un paio di brani da solista. Su «Bitter Sweet Symphony» scendono le prime lacrime, forse solo ora sto cominciando davvero a realizzare dove sono e cosa sta per succedere. Il pubblico canta e copre la voce di Ashcroft, è un momento epocale. Alle 20.15 scatta l’ora X. Siamo pronti. Liam e Noel salgono sul palco tenendosi per mano, la sollevano in alto in segno di vittoria, i volti emozionati e desiderosi di suonare davanti al pubblico di casa loro. L’attacco con «Hello» e quella transenna che era diventata il mio rifugio per ore, si trasformano in una trappola contro il pesantissimo pogo inglese. Sono stata a tanti concerti di questo tipo, ma è troppo anche per me, e sono costretta ad arretrare di qualche metro per non fratturarmi una costola. Da «Acquiesce» in poi entro totalmente in connessione con la situazione: si salta forte per tutta la prima parte, un susseguirsi di energie, «Morning Glory», «Some might say», «Bring it on down», «Cigarettes and Alcohol», «Roll with it» (la scaletta anche in questo caso è la stessa delle prime due date, un viaggio fra i più grandi singoli della band che prova ad accontentare tutti i gusti). Il sole è ancora altissimo, ho la parte destra del corpo più abbronzata dell’altra, il maestoso palco con i maxischermi ci mostra da vicino le facce dei nostri beniamini, che salutano la città e ci ricordano perché siamo tutti lì, inchinati ai loro piedi (o forse loro ai nostri). Il blocco centrale del set è più emotivo: «Little by little» leggermente velocizzata rispetto all’originale, ma sempre piena di intensità, «Talk Tonight» e «Half the world away» dedicate alle tante coppie presenti, ma è una serata in cui tutto può succedere, e il romanticismo arriva insieme a un ragazzo che gira tra il pubblico e prova a vendere qualsiasi tipo di sostanza illecita. Normale amministrazione.
Il tanto atteso tramonto abbraccia la città con una magistrale «Stand by me», «Cast no shadow» come sempre dedicata a Richard Ashcroft, e un saluto all’allenatore Pep Guardiola: il suo cartonato a grandezza naturale con tanto di sciarpa vigila sul pubblico e sulla band insieme alla bandiera del City, ma c’è anche il Guardiola vero nel parterre a cantare (lo scopriremo ore dopo su Instagram, quando i telefoni ricominceranno a prendere).
«Slide away», sempre tra le preferite dei fan, «Whatever», e in coda non può mancare il ritornello di «Octopus’s Garden» dei Beatles. Qualche parola di affetto per il pubblico da parte dei due fratelli, ma sappiamo che si sta inesorabilmente avvicinando il momento di salutarli. Non prima di aver cantato tutti insieme quegli inni che hanno contribuito a rendere la loro musica immortale: «Live forever», «Don’t look back in anger», «Wonderwall» e la già citata «Champagne Supernova». Mi guardo intorno, non ci sono solo telefoni a riprendere questo momento storico. Tante mani in aria, voci che a tratti coprono il cantato. Mi chiedo cosa stia passando nella testa di ognuna delle ottantamila persone lì, in quell’istante, tutte insieme a intonare i ritornelli di una vita intera. Vedo sorrisi, vedo l’importanza che ognuno dà a una canzone, a una strofa, anche a un singolo verso in cui identificarsi (uno dei miei - che è anche lo sfondo del mio telefono - è «Please don’t put your life in the hand/of a rock’n’roll band/who throw it all away»). Mi è arrivata addosso la potenza di quel momento. E in quel pianto disperato e così sentito insieme agli ultras c’erano i ricordi di un’esistenza, la speranza di vivere altre giornate così, la tristezza ma anche l’immensa gioia di ciò che è stato. E credetemi, rispetto alle due ore di concerto non riesco a raccontare altro, non esistono parole adeguate per descriverne l’importanza e la consapevolezza che lo ha accompagnato.
Usciamo dal parco stravolti, ubriachi anche senza aver bevuto, totalmente appagati. La mezzora a piedi che ci accompagna alla stazione dei tram scorre cantando, scambiandoci commenti, ancora increduli per aver vissuto tutto questo. Rientriamo in centro in meno di un’ora, nonostante il fiume di gente di cui non si vede la fine. A bordo del tram scopro che gli Oasis hanno ripubblicato un mio video su TikTok dal loro account ufficiale, un’ulteriore ciliegina dolce su una giornata davvero perfetta, un microscopico frammento di vita che ti fa dire «esisto». Abbiamo i piedi distrutti, i vestiti sporchi, tappa fast-food veloce perché smaltita l’emozione arriva la fame. Ci scambiamo qualche foto, ci salutiamo dopo aver vissuto insieme una giornata storica, che avrà strascichi infiniti nei cuori di tutti, infiniti quasi come la doccia che faccio appena rientrata, anche se sono stata fortunata a non essere stata vittima di un gavettone di «pioggia dorata», pratica molto comune in questo tipo di concerti (e no, non sto parlando di birra).
Scrivo alla mia famiglia tranquillizzandola, ero da sola ma sono sopravvissuta anche stavolta. La vita è troppo breve per non andare ai concerti, anche quando non si è accompagnati. Tante volte capita, quando vado a seguirli per lavoro, in questo caso è stata una scelta. Era un regalo a me stessa, un cerchio da chiudere per dire a quella bambina che sognava consumando tutto «(What’s the story) Morning glory?»: «Guarda dove ti ho portato, alla fine ce l’abbiamo fatta a vederli insieme, abbiamo trasformato un grandissimo rimpianto in un sogno indimenticabile».
Un sogno in cui sono perfettamente sveglia, a bordo dell’aereo che mi sta riportando a casa e da cui sto scrivendo questo racconto. Due lacrimucce scendono ancora, ma sono lacrime di soddisfazione, di passione che porta a girare il mondo. Di gratitudine anche per avere questo spazio per fissare tutte queste emozioni a caldo. Almeno fino al prossimo concerto.