La mostra

Brindisi, nel museo archeologico quell'antico amore tra Egnazia e il mare

Giacomo Annibaldis

Allestita una nuova sezione di reperti. L'impianto permette ai visitatori una immersione subacquea simulata

BRINDISI - La rilevanza di Egnazia come scalo marittimo della Puglia nell’antichità è testimoniata da Strabone, lo storico-geografo vissuto a cavallo tra il I sec. avanti Cristo e il I dopo. Parlando della città apula, ultimo insediamento del territorio dei Peuceti, al confine con quello dei Messapi, egli scrive: «Costeggiando l’Adriatico da Brindisi, si trova la città di Egnazia, tappa obbligata per chi è diretto a Bari, sia via mare che via terra; per mare, si naviga con il vento del sud (…). Da Brindisi a Bari sono circa 700 stadi; Egnazia si trova quasi alla medesima distanza tra l'una e l'altra».

Nei secoli questo rapporto privilegiato con il mare è stato un po’ tacitato, e da ultimo quasi falsato, dalla separazione causata nell'antico insediamento soprattutto dalla strada provinciale, che ha diviso nettamente la zona portuale con l'acropoli dal resto urbanistico della polis peucezio-romana. Da quando gli scavi ad Egnazia sono ripresi alacremente, grazie anche alla ventennale attività dell'Università di Bari, si è sempre avvertita la necessità di riannodare questo rapporto simbiotico di Egnazia con il suo mare.

Da tale esigenza è nato ora l'allestimento di una nuova sezione del Museo archeologico nazionale, dedicato, appunto, a «Egnazia e il mare», che fa seguito anche a una serie di iniziative che riguardano un «parco subacqueo», aperto a visitatori «sottomarini», in corso negli ultimi anni.
L'impianto della mostra intende essere «immersivo», hanno sottolineato Angela Ciancio, direttrice scientifica, e Fabio Galeandro, che dirige il Museo. E difatti, anche la discesa in ascensore simula una immersione del visitatore in apnea; e ugualmente – per rafforzare questa sensazione (la sezione è situata in quello che era lo «scantinato» del museo) – pannelli e video sulle pareti sono semoventi e fluttuanti.

Per quanto il racconto voglia essere solo tematico, e non cronologico, né topografico – come ha indicato Ciancio –, l'intento è di dare allo spettatore l'impressione di calarsi nelle acque, e lì ritrovare oggetti attinenti alla marineria e alle attività piscatorie, nonché ai traffici marittimi: e tutto con reperti dei ritrovamenti subacquei. Ecco, allora, esibiti soprattutto i contenitori ceramici di varia natura, con i loro tappi sigillanti (gli «opercula»): anfore nelle quali venivano importati o esportati non solo alimenti, come vino, olio , grano formaggi, il garum (prelibato condimento tratto dal pesce macerato...), ma anche monete, incenso, materiali varii...

Accanto ai vasi – il più suggestivo resta il grande dolium, adagiato su un arenile, una vasca che simula il fondo marino – non mancano ami, pesi di reti, ancore in pietra e in ferro, le lucerne per rischiarare le notti dei marinai, i pesi in bronzo per misurare le derrate (una statuetta femminile aveva questa funzione), ceramiche incrostate... Spicca tra i reperti un grande contenitore in terracotta, databile al II millennio a. C.; lo spettatore «ignaro» non lo distinguerebbe dagli altri oggetti, ma la straordinarietà del vaso sta, senza dubbio, nel fatto che è di produzione cretese; e identici si ritrovano nei palazzi arcaici dell'isola greca.

Un cippo funerario – ripescato dalle onde – ricorda un marinaio che a Egnazia morì: una imbarcazione, graffita su uno dei lati di questo monumento funebre, ne indica l'attività, nel II sec. d. C. Così reperti di una visione fluttuante riemergono dalle acque per raccontarci piccole storie – marittime e non – perdute.

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