Meridiane

Da Napoli a Milano con il mare nelle tasche

Silvio Perrella

Al Teatro Lirico di Via Larga le emozioni e la polifonia dell'impossibile: quando il palco non basta più all'attore

Per Prospero le magie sono malinconie necessarie; Ariel e Calibano escono dal suo scettro tenuto con dita riluttanti; lui vorrebbe solo dar pace alla sua Miranda, sottosopra dopo il naufragio.
Il mare non sta mai fermo di suo; figurarsi se c’è qualcuno che lo spinge verso il cielo e lo precipita nelle profondità più fonde e fosche. Onde anneganti, onde fatte di tessuti chiari movimentate da giovani attori tra palco e platea.
Gli anni Settanta sfioriscono nella violenza; Aldo Moro prigioniero per quasi due mesi in una prigione a un passo da tutti ma invisibile; Giorgio Strehler mette di nuovo in scena La Tempesta.
Il teatro Lirico apre le sue porte in via Larga, in una Milano attonita; dentro i velluti rossi delle poltrone e del sipario attendono i gesti del regista.
Tino Carrano è bianco nel bianco accecante della scenografia. Giulia Lazzarini è Ariel appesa a un cavo d’acciaio e svolazza nell’aria teatrale, mai ferma, sempre pronta ad assecondare il suo padrone. Massimo Foschi è Calibano, corpo bianco dipinto di un nero fosco e terroso.
In platea un ragazzo inesperto di teatro, occhi attenti memoria in agguato per dar fonte al suo futuro di uomo a danza di pensieri.
Le onde si placano, l’isola compare, Prospero cerca di rincuorare la figlia Miranda.
Ha lo scettro nascosto sotto il gran vestito, largo di risentimenti.
La scena è vastità di vuoto. I piedi sotto le poltrone non sono più aggrappati all’impiantito; si riposano per attimi lunghi. Prospero medita vendette.
È come se avesse il mare nelle tasche, pruriginoso di una nuova tempesta. Che accada quel che è necessario. Che i nemici siano vittime di un naufragio ipnotico.
Che nelle menti s’introduca la nebbia del disagio e del disorientamento.
Ariel va su e giù; prende e porta messaggi.
Calibano è pronto a ogni misfatto.
Il ragazzo sgrana gli occhi; il teatro gli è davanti ma anche dietro; è la rappresentazione e insieme il pubblico di cui fa parte che aspetta, riaggancia di nuovo i piedi all’impiantito, teme di volare con gli attori, d’inzaccherarsi le giubbe i cappotti gli impermiabili.
Prospero dà vita alle sue magie malinconiche; sarebbe duca di Milano, forse andrà a Napoli; adesso è ancora sperduto ncopp’a st’isola sulagna.
Il ragazzo viene da Napoli e adesso è a Milano e cerca il mare ad ogni angolo; ha la gola asciutta mentre Prospero sta meditando il suo commiato.
Il palco non basta più all’attore; il regista lo spinge verso di noi tra i velluti rossi della platea.
È imponente nel suo apparire; ha lo scettro in mano; parla.
Dice che lui dei suoi poteri magici vuol disfarsi.
D’altronde lo spettacolo si è svolto, è accaduto, si è srotolato come le onde di stoffa con dentro i giovani attori a mettere fiato sotterraneo in comune.
Dice Prospero di essere stanco e che forse andrà a Napoli, dove chissà potrebbe incontrare quell’Eduardo che pochi anni dopo, già quasi cieco, volterà in napoletano antico l’inglese altrettanto antico di Shakespeare; quell’Eduardo che di isole sulagne se ne intendeva, abitandone a tratti una remigante tra Punta della Campanella e Capri.
Prospero, vicinissimo nella luce, dice che il tempo delle magie è per lui finito; spezza lo scettro e l’intero teatro si frantuma in un fragore devastante di legni e di accaiai.
Al ragazzo batte il cuore; non sa cosa pensare; capisce che in quel gesto si annida un’interpretazione; un pensiero critico reso trasparente nell’aria teatrale e conseguente alle parole dette; un tutt’uno a stringere la polifonia dell’impossibile.
Prospero gli sta dicendo che è finita un’epoca e insieme è finito lo spettacolo; che lui dismettendo i poteri regali sta anche abbandonando i poteri ammaliatori del racconto, la scia misterica del dar vita all’affabulazione in pubblico davanti a occhi balbettanti nel buio di una sala purpurea.
«Dateme la libertà da li legame mieje cu lu signale de li battimane»: Prospero chiede di essere giudicato e liberato con un applauso.
E dopo il suo gesto dal silenzio contemplativo sale, sì, l’applauso; il pubblico si alza, il ragazzo varca la soglia tra il dentro e il fuori.
A via Larga un vento gelido gli fa alzare il bavero.

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