Meridiane
Certosa di San Martino, meditazione e silenzio
È l'Acropoli di Napoli, insieme al Castello. Un labirinto, poi un pavimento clessidra e la giostra degli attimi
La Certosa di San Martino è sospesa tra due paesaggi. Prima d’entrare dal piazzale fa mostra di sé una Napoli che scoscende lungo la Pedamentina, una città quasi campestre, dove la terra è coltivata in angoli che si chiudono su muri tufacei di contenimento e protezione.
Arriva poi la via mediana e a curve larghe del Corso Vittorio Emanuele, stazione di posta di ben tre Funicolari.
Dondola subito dopo la fatiscenza alla Thomas Jones di quello che fu un ospedale militare e da lì si scende verso la pianura di via Toledo lambendo i Quartieri Spagnoli.
Del primo paesaggio di San Martino rimane negli occhi la lunga fenditura di Spaccanapoli e lo svettante campanile di Santa Chiara, vetusto autorevole petrosissimo.
Se poi si varca il confine tra fuori e dentro e si attraversa il Chiostro e si guarda atterriti alla prua guerresca di Sant’Elmo che incombe insieme aerea e terribilmente terrosa e si giunge a passo circospetto al belvedere, ecco il secondo paesaggio dove prevalgono la massa acquea del mare e la curvatura del Golfo e dove naviga la calcarea e bitorzoluta Capri.
La città da lì si distende, offre la Villa Comunale da un lato, il Porto dall’altro e da una finestra si può scorgere la più remota propaggine della Certosa, un piccolo manufatto architettonico, un aleph con gli archi e le merlature prediletto dagli amanti che lo raggiungono di stramacchio e da dove la città sembra dica per un attimo la sua verità altrimenti impronunciabile.
La Certosa di San Martino, insieme al Castello, è l’Acropoli di Napoli.
Opposti, sono costretti dalla vicinanza alla convivenza.
La Certosa è meditazione e silenzio; il Castello è incarcerazione e dimenticanza.
Entrambi naturalmente sono anche molto altro; un molto altro che si ficca nella mente di ogni individuo che sale sin lì per pellegrinaggi propri, ricercanti vie di fuga per piedi e occhi inquieti.
Nella Chiesa di San Martino si entra d’improvviso; si salta dalla luce all’ombra; si fa metamorfosi di sé.
Vado a salutare per l’ennesima volta il pavimento fanzaghiano, l’equivalente di un sonetto di Gongora composto con il marmo.
Geometria che sfugge alla geometria; figure che si cercano per moltiplicarsi; soli spendenti di raggi; occhi a iosa.
Si vorrebbe non aver piedi, essere individuo tutt’occhi, signor Perelà omino di fumo.
Farsi aerei e intangibili, ma capaci di atterraggi precisi, puntuali, efficaci; prede di dettagli da indagare aria nell’aria.
Sono gli occhi a sfidare la complessità di un labirinto fitto di punteggiatura; di una partitura petrosa che solfeggia uno spazio-tempo inglobante vertiginoso cromatico.
Rosso grigio giallo nero arancione di nuovo bianco ancora grigio ritorna il giallo.
Figure concentrice, svasature, merlettature, aeree puntiformi, bordature che riaprono tutto da capo.
Si cerca il punto d’origine, potrebbe essere il grande cerchio centrale; ma si sospetta che ogni punto generi se stessi in un disordine pulsante che è poi costretto a relazionarsi all’altro punto.
E’ una fioritura d’ipotesi che si autoriproduce; un sistema vegetale dove il mondo sottostante preme ancora per venir fuori; e grida in un silenzio assordante.
Pavimento-clessida, antimeridiana meridianesca, tempo seppellito e ghiacciato e insieme dissipazione, sospensione, silenzioso accoglimento di ogni sguardo, collezione di occhi rasoterra, biguardanti verso il tetto fiorito di figure e verso il centro della terra trafitto dal buio primigenio del non sapere, del non conoscere, dell’indistinto.
Andare verso il centro è mossa irresistibile.
Entro nel cerchio.
Osservo i raggi biancogrigioneri desiderosi d’emigrare ma ligi al dovere della stanzialità.
Il loro spingersi verso i confini tende tutte le altre figure a danzare negli spazi limitrofi.
Mi accoscio dentro questo cerchio che chiude apre chiude apre come un battito cardiaco.
Osservo il punto d’origine, un cerchiolino che il tempo ha sfrangiato, fratturandolo di linee che curvano nelle curve come la sezione intima di un albero.
Metto il dito proprio lì, nel centro del centro; lo premo leggermente e mentre lo premo comincia a girare imprevista la giostra degli attimi