Se i «cinguettii» diventano a pagamento
Musk compra il social, licenzia metà del personale e chiede agli utenti un canone di 8 dollari al mese. Zuckerberg caccia 11mila dipendenti di Meta, la società del metaverso. La bolla si sgonfia e la libertà di comunicare presenta il conto
Dopo tanti tira e molla Elon Musk ha comprato Twitter, la piattaforma di messaggistica che oggi conta circa 330 milioni di utenti attivi, anche se gli account sono 1,3 miliardi. Nonostante questi numeri da far girare la testa, il social media ritenuto più attendibile non fa grandi utili, anzi, non ne fa affatto. Di qui la drastica cura di mister Tesla: via quasi la metà del personale e canone di 8 dollari mensili per tutti coloro che vogliono la «spunta blu».
Si tratta di una sorta di certificazione rilasciata dalla stessa piattaforma che indica utenti verificati e quindi non account fantasma o inventati. Per questo la piattaforma gode di una certa credibilità e non c’è politico o personaggio pubblico che al mattino si svegli senza lanciare il suo cinguettio di inizio giornata. A dare maggiore credibilità a Twitter è anche lo spazio a disposizione dell’utente: su Facebook è praticamente illimitato e con grandi possibilità di interloquire con gli altri internauti; su Twitter si possono inviare messaggi lunghi fino a 280 caratteri (in origine erano 140).
Fatto sta che buona parte delle notizie oggi in circolazione nascono e viaggiano per il pianeta grazie ai «tweet», che alimentano così tutti gli altri media. La faccenda degli 8 dollari al mese da pagare ha fatto però storcere il naso a più d’uno. In Italia ne nata anche una polemica ideologica. Con un articolo su La Stampa il teologo Vito Mancuso ha annunciato urbi et orbi che abbandonava Twitter. Non tanto per gli 8 dollari, che pure fanno quasi 100 euro l’anno, ma soprattutto perché «Musk è un prepotente».
E poi il paragone con il passato: «Ho agito come ho fatto molti anni fa, quando ho lasciato Mondadori, la mia casa editrice di allora. Nel 2020 Silvio Berlusconi era sia capo del governo che proprietario della Mondadori, e io scrivevo per la Repubblica. Chiesi al giornale di pubblicare un articolo nel quale comunicavo la mia scelta di lasciare la casa editrice, poiché mi metteva terribilmente a disagio il fatto che Berlusconi avesse confezionato, per non rinunciare a niente, una delle sue molte leggi ad personam. Oggi, su Twitter, avverto lo stesso disagio, pertanto lo abbandono». Il giorno dopo, sullo stesso quotidiano, gli ha replicato lo scrittore Diego de Silva (il «papà» dell’avvocato Malinconico): «Dopo qualche anno (chi lo frequenta lo sa), l’uso di Twitter crea un automatismo dell’intuizione: è istintivo il gesto di assicurarla alla custodia del social in forma aforistica. Twitter, insomma, genera diversi livelli di dipendenza (Musk lo sa, è per questo che l’ha comprato; ma non ha capito che se lo snatura, lo uccide).
Ecco perché essere rigorosi e giusti come Mancuso è difficile (come lo è stato per lui, del resto)». Insomma, condivide il gesto, ma non trova la forza di fare altrettanto. Con la polemica ancora a tutta fiamma, è arrivata un’altra notizia: Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook e il profeta del «metaverso» ha annunciato con una mail a 11mila dipendenti proprio di «Meta» il loro licenziamento. La motivazione? Eccola: «Un aumento significativo degli investimenti» che non ha portato ai risultati sperati, mentre «non solo l'e-commerce non è più tornato ai livelli della fase acuta della pandemia, ma la recessione macroeconomica, l'aumento della concorrenza e il calo della pubblicità online hanno fatto sì che le nostre entrate fossero molto più basse di quanto mi aspettassi». Cioè una questione di soldi anche in questo caso.
L’impressione che se ne ricava, se si considera che Amazon e Google hanno fermato le assunzioni e che Apple ha problemi di produzione, è che si stia sgonfiando l’enorme bolla creata dalle cosiddette big-tech e di cui tanti politici ed economisti si erano innamorati prevedendone uno sviluppo sempre più massiccio. Per carità, non spariranno, perché ormai fanno parte della nostra vita e sono indispensabili per tenere in piedi il mondo economico, diciamo così, «analogico». Però hanno contribuito a creare molte illusioni e a generare progetti di sviluppo un po’ fuori asse rispetto alla realtà. L’altro aspetto riguarda il problema della libertà. Ci stiamo accorgendo che esercitiamo il fondamentale diritto di poter esprimere il nostro pensiero grazie a strumenti di privati, che prima ci hanno fatto credere che fosse tutto gratis e ora mostrano il vero volto bussando a soldi. Il problema – come dice De Silva – è che ormai si è creata una dipendenza, che nessuno più si accontenta di dire la sua al bar o in pizzeria con gli amici: il nostro ego pretende ormai una platea planetaria, un uditorio globale. Per cui si andrà avanti lo stesso, anche se poter esprimere il proprio pensiero diventerà sempre più una questione dal sapore estorsivo: o paghi o autorizzi la vendita dei tuoi dati personali.
Sarà – ma in larga misura lo è già – il prezzo per una libertà che dovremmo imparare a usare con cura e della quale invece abusiamo, tanto… non costa. Non ci meraviglieremmo se il governo varasse subito un bonus-Twitter, altrimenti i cinguettii di premier e ministri vari rischierebbero di perdersi nel vento infinito della Rete.