Roma, Sud

Quando la Via Appia guardava al futuro

Liborio Conca

Già i Romani consideravano l’avanzamento dei trasporti come un mezzo per lo sviluppo. E le carenze di oggi...

Qualche giorno fa ero di passaggio a Brindisi, in una mattinata di fine settembre che pareva invece pieno luglio, calda e luminosissima. Una breve passeggiata tra il lungomare e il centro storico, con tappa obbligata alle colonne romane che s’affacciano sull’Adriatico e sul porto cittadino.

Da tempo sappiamo che le colonne non vennero erette per rappresentare la «fine» dell’Appia antica, eppure, per il fascino che esercita da sempre la Regina viarum, mi piace continuare a credere che in qualche modo sia così. Un punto così solenne merita una raffigurazione architettonica che ne qualifichi la mitologia.

Da Porta Capena, nei pressi delle Terme di Caracalla (e, per dare un riferimento più contemporaneo, a due passi da quella che fu la villa di Alberto Sordi) fino al porto di Brindisi, per quasi 650 chilometri. Già una volta ho scritto in questa rubrica della via Appia, e in effetti il materiale per riempire libri su libri, che pure esistono, non mancherebbe. In questo caso però oltre alla circostanza strettamente personale del mio passaggio a Brindisi, mi hanno colpito – e innescato – le recenti polemiche su una questione attuale, e non da oggi: l’incredibile carenza nei collegamenti tra la Puglia, così come la Basilicata, e la capitale d’Italia. Collegamenti aerei cancellati, e treni in perenne affanno.

A questo proposito, soltanto una settimana fa, sulle pagine di questo giornale, mi è capitato di leggere un pezzo di Nicola Pepe: «La tratta Bari-Roma continua a essere un percorso per dannati», scrive. Il riferimento preciso è a una tecnologia che ancora non esisteva quando il censore romano Appio Claudio Cieco avviò i lavori dell’antica strada, vale a dire quella degli aeroplani; ma il pezzo prosegue elencando come gli ostacoli al collegamento tra la Puglia e Roma riguardino tutti gli altri mezzi di trasporto. I treni che non hanno mai raggiunto la rapidità e l’efficienza che spetta ad altre tratte tendenzialmente collocate a Nord della Capitale, e che sembrano essere comunque colpiti con particolare accanimento dalla maledizione di ritardi assai frequenti; gli autobus notturni, utili per i fuorisede – anche io lo sono stato – ma non esattamente il massimo per comodità.

E le autostrade, certo, e anche qui, l’esperienza personale che testimonia gli eterni lavori nel tratto lungo l’Irpinia, nella regione del Sannio, proprio dove procedeva, con maggiore efficienza, l’Appia antica.

Un recente trend social assai in voga, nato in America, consiste nel porre la seguente domanda: «Quanto pensi all’impero romano?» Si è scoperto che le risposte medie al quesito contengono una frequenza parecchio elevata, in ogni parte o quasi del mondo, specialmente tra i maschietti. E insomma la tentazione di sostenere che i collegamenti tra centro e sud funzionassero meglio ai tempi di Spartaco e Marco Antonio che a quelli delle automobili elettriche e degli shuttle è parecchio forte, seppur paradossale.

Per i romani la via Appia era la strada che riuniva il meridione della penisola italiana ma anche e soprattutto il percorso che avrebbe condotto in Epiro e in Grecia, in quel Mediterraneo orientale cruciale per innumerevoli motivi. Sappiamo bene che da allora l’asse economico si è spostato verso latitudini diverse, ma non sarebbe l’ora di recuperare quel legame? Ogni giorno ascoltiamo diverse promesse, qualcuna persino mirabolante, su nuove infrastrutture, ma l’idea di rafforzare le linee – viaria, aerea, ferroviaria – che portano da Roma al sud est del Paese, non dovrebbe essere prioritaria?

Magari affiancando modernità e tradizione, dando il via al progetto, in cantiere, di quel Parco dell’Appia Antica diffuso. Due binari, quello della storia e dell’oggi, per rimettere in piedi un percorso senza tempo.

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