Freedom Flotilla
La barese Francesca Amoruso a bordo dell'Al Awda verso Gaza: «Non è solo aiuto, è resistenza»
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Salpati da Otranto lo scorso 25 settembre, l'equipaggio composto dalla 43enne impiegata di Bari, dal capitano Dario Dario Accurso Liotta, da Nando Primerano e da Fabio Saccomani raccontano la partenza: «La paura più grande? Restare fermi a guardare»
Il mare li ha costretti a fermarsi, ma la loro rotta resta tracciata. La Freedom Flotilla partita dal porto di Otranto il 25 settembre è bloccata in acque greche a causa del maltempo. Due velieri, la Al Awda e la Ghassan Ganafani, battenti bandiera italiana, salpati con un carico di cibo e medicinali destinati a Gaza e con equipaggi ridotti (4 persone per imbarcazione, 8 in totale). Una piccola flotta che porta sulle sue vele un compito enorme: forzare simbolicamente l’assedio imposto da Israele alla Striscia.
A bordo della Al Awda c’è anche una voce che arriva da Bari. Si chiama Francesca Amoruso, ha 43 anni, impiegata che da anni si impegna nel mondo del sindacato. È l’unica donna a bordo della spedizione. «La nostra causa – spiega – non è semplicemente consegnare qualche scatolone. È dimostrare che è possibile arrivare a Gaza, forzare il blocco e renderlo visibile agli occhi del mondo. È un atto politico prima ancora che umanitario». Gli attivisti raccontano come la scelta di partire sia nata da un’urgenza morale.
«All’inizio – confessa il capitano Dario Accurso Liotta – mi sono mosso quasi con incoscienza. Poi, strada facendo, quell’incoscienza si è trasformata in responsabilità. Abbiamo visto l’entusiasmo della gente nei porti italiani che attraversavamo, centinaia di persone venute a ringraziarci. A quel punto abbiamo capito che contava meno il nostro gesto individuale e molto di più il movimento collettivo che stavamo alimentando».
La parola che torna più spesso è proprio «responsabilità». Non quella generica, ma il peso di sentirsi chiamati a reagire di fronte a un genocidio trasmesso quotidianamente in diretta televisiva. «La paura più grande – aggiunge Nando Primerano – non è rischiare la vita in mare, ma restare immobili davanti alle immagini di bimbi uccisi e di un popolo affamato. Non potevamo continuare a vivere come se nulla accadesse. La vera incoscienza sarebbe stata quella».
«Siamo come Davide contro Golia – racconta Fabio Saccomani – ma non fare nulla significa comunque fare una scelta».
La loro partenza si inserisce in un contesto difficile: poche settimane fa, al largo di Creta, la Global Sumud Flotilla è stata colpita da droni, con 14 imbarcazioni danneggiate. Anche per questo l’eco della spedizione di Otranto è stata accompagnata da timori e da una domanda ricorrente: non rischiate di diventare solo martiri mediatici? L’equipaggio respinge l’etichetta. «Il martirio non ci appartiene – ribadiscono –. Non è un gesto fondamentalista, ma razionale. Non saranno due velieri a fermare Israele, ma la pressione politica, le piazze piene, le prese di posizione che stanno cambiando anche in Italia. Noi siamo solo una scintilla dentro un movimento più grande».
«Quello che accade a Gaza è l’acme di un sistema violento che vediamo anche nei nostri territori – dice ancora Fabio – lo stesso sistema che chiude ospedali in Calabria o sfrutta lavoratori migranti sotto il sole. La battaglia per la Palestina è una battaglia per l’umanità tutta».
Ognuno ha lasciato qualcosa di importante per salire a bordo. Francesca al momento è in ferie e poi... chissà. «Non sono una sindacalista di professione, come spesso viene detto. Sono un’impiegata che ha scelto di sospendere la propria vita per essere qui». Dario ha stoppato i lavori di ristrutturazione della casa nel bosco che condivide con la moglie. Fabio ha messo in stand by il suo lavoro da partita iva. Nando ha lasciato famiglia, cani, orto e l’attività nel Centro Sociale Cartella di Reggio Calabria: «Sono partito io, ma è come se fossero partiti anche tutti i compagni e le compagne che ci sostengono».
Unanime è l’idea che la pressione dal basso sia decisiva per riportare la questione palestinese al centro del dibattito internazionale. «Il primo passo imprescindibile – sostiene Accurso Liotta – è una Palestina libera e riconosciuta. Solo così si può restituire senso al diritto internazionale, oggi piegato alla legge del più forte».
Per ora il vento e il mare impongono una sosta. Ma la Freedom Flotilla sa che ogni miglio percorso, ogni parola pronunciata a bordo, è già un segnale politico. Lo ripetono all’unisono: «Non portiamo solo aiuti, portiamo un messaggio. Se la storia ci chiederà cosa abbiamo fatto in questo momento, potremo rispondere che abbiamo scelto di muoverci».
La Freedom Flotilla continuerà la sua rotta verso Gaza senza scali intermedi, con un tracciamento satellitare attivo. Nel porto di Otranto resta ancora la nave ammiraglia Conscience, che imbarcherà circa 300 persone, in gran parte medici e infermieri turchi, e che salperà nei prossimi giorni. E mentre le vele puntano verso Est, sulle banchine resta l’eco di una parola che gli attivisti ripetono con forza: responsabilità verso Gaza, contro l’assedio, in nome di un’umanità che non vuole restare spettatrice.