il processo
Taranto, il locale estorto con metodo mafioso: «Così Verdolino evocò il clan Cesario»
Le motivazioni della condanna a 5 anni e 4 mesi ai danni dell’imprenditore
L’imprenditore Giulio Verdolino «ha in modo larvato e silente minacciato» un imprenditore «costringendolo, nonostante fosse ormai sostanzialmente concluso il contratto di locazione, a recedere repentinamente dalla trattativa evocando la forza criminale del clan Cesario e paventando, sempre in modo implicito, le conseguenze di un rifiuto in tale senso, ovvero il “dispiacere” che avrebbe creato al capostipite e la sicurezza di cui lui stesso avrebbe potuto beneficiare dalla presenza della consorteria criminale in prossimità della concessionaria».
È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con la quale il tribunale di Taranto ha condannato Verdolino 5 anni e 4 mesi per l’accusa di estorsione con metodo mafioso ai danni di un altro imprenditore tarantino. Secondo l’accusa riconosciuta in primo grado, quest’ultimo, sarebbe stato costretto dai «consigli» di Verdolino a lasciare un locale perché interessava al figlio di «Giappone», soprannome del boss Mimmo Cesario, uno degli elementi di spicco della criminalità tarantina.
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