l’inchiesta
Taranto, dragaggi e fanghi tombati nei fondali del molo San Cataldo: l’Antimafia chiede il processo per otto
Rischiano il giudizio sei persone fisiche e anche due società. Il pm: «16mila tonnellate seppellite per risparmiare i costi di smaltimento»
LA Direzione distrettuale Antimafia di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio per 8 imputati (6 persone fisiche e 2 società) coinvolte nell’inchiesta sul traffico illecito di rifiuti accumulati dalle attività di dragaggio dei fondali del molo «San Cataldo» nel porto di Taranto. Il pubblico ministero Milto De Nozza, che ha coordinato l’inchiesta degli investigatori della Capitaneria di Porto agli ordini del capitano di vascello Rosario Meo, ha chiesto il processo nei confronti Fabrizio, Valerio, Claudio e Tiziano Parascandolo, il primo amministratore e gli altri soci dell’omonima società di trasporti, e poi un 48enne di Crispiano, dipendente della stessa società, e infine Pietro Castelli, 85enne di Statte, amministratore della «Sia – Servizi Integrati Ambientali srl» difeso dall’avvocato Fabrizio Lamanna.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti gli imputati ai vertici delle due società avrebbero messo in piedi una «attività organizzata di abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti pari a 16mila tonnellate» di terre e rocce da scavo: dalle attività condotte dagli inquirenti, però, in quel quantitativo c’erano materiali che erano privi delle analisi che potessero certificare la loro natura, ma soprattutto erano stati inseriti anche «fanghi di dragaggio» e «materiali misti da demolizioni» che invece dovevano essere smaltiti con una procedura differenze e certamente più costosa. Da quanto contestato dall’Antimafia di Lecce, invece, emerge che tutto era stato conferito dalla Parascandolo srl nell’impianto della «Sia» che è autorizzato esclusivamente al recupero dei materiali: quei rifiuti sarebbero poi stati tombati, seppelliti cioè nelle profondità del terreno. Un’operazione che secondo il pm De Nozza, ha sostanzialmente trasformato «un sito autorizzato allo stoccaggio per il recupero in un sito di smaltimento e, quindi, in una vera e propria discarica abusiva».