Cronaca giudiziaria

Taranto: «Alle amministrative 2017 ci fu un patto illecito»

Francesco Casula

Richiesta l'archiviazione del caso Baldassari-Cicala. Per l’accusa quelle condotte sono provate, ma non competono alla Dda

TARANTO - Il presunto patto illecito siglato dalle ex direttrice del carcere di Taranto Stefania Baldassari con Michele Cicala, pregiudicato ritenuto dalla Dda di Lecce a capo di un clan mafioso, non configura il reato di «scambio elettorale politico-mafioso», ma quello di «corruzione elettorale». È quanto si legge nella richiesta di archiviazione firmata dal pubblico ministero Milto De Nozza che indagava da tempo sui rapporti tra l’ex direttrice e candidata sindaco nel 2017 e il clan Cicala e, in particolare, sul sostegno che quest’ultimo avrebbe garantito alla Baldassari durante la campagna elettorale.

Dal documento inviato al Dipartimento Affari Penitenziari - che ha reintegrato in servizio l’ex direttrice - emergono infatti dettagli che svelano come l’archiviazione chiesta dall’Antimafia sia più una questione formale che sostanziale. È il magistrato antimafia a spiegare nero su bianco che lo «scambio elettorale politico-mafioso», nella sua forma del 2017, prevedeva che, perché potesse esserci questo reato, il politico doveva dare o promettere denaro o altre utilità al mafioso mentre in questa vicenda l’atteggiamento della Baldassari nei rapporti con Cicala è più una «messa in disponibilità» (fattispecie punita dalle modifiche introdotte nel 2019 dal Ministro della Giustizia del Movimento 5Stelle Alfonso Bonafede). Non solo. La natura mafiosa del gruppo Cicala, è contestata dall’accusa, ma sia il gip che il Riesame di Lecce hanno ritenuto che invece non fosse un’organizzazione di stampo mafioso: questo punto pende ora dinanzi al tribunale di Taranto dove si sta celebrando il processo.

Ed è principalmente per questi motivi che il pm De Nozza ha chiesto di archiviare le accuse.

Ma a leggere le 14 pagine dell’atto, si comprende come per il magistrato quelle condotte siano non solo provate, ma dipingano l’esistenza di una «zona grigia» in cui si uniscono la criminalità ionica e gli apparati politico-amministrativi: in quel cono d’ombra secondo il magistrato «si muovono professionisti, politici e funzionari pubblici che, pur non partecipando all’associazione criminosa nelle forme richieste per integrare» la fattispecie di reato «rendono, tuttavia, prestazioni e servigi utili all'attività del sodalizio o al perseguimento dei suoi scopi». Insomma al di là dell’aspetto strettamente tecnico-giudiridico, per il pm De Nozza, questa indagine ha mostrato l’esistenza di «una oscura e sordida zona d'ombra nel cortile istituzionale della legalità».

In particolare, le intercettazioni raccolte dai finanzieri del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria, avrebbero dato conto di un «un fatto incontrovertibile» e cioè che all’indomani dell’arresto di Michele Cicala e di presunti suoi affiliati, la Baldassari, all’epoca direttrice del carcere in cui si trovavano gli indagati del clan, si sarebbe recata all'interno del bar «Primus Borgo», sequestrato perché riconducibile al gruppo, per «offrire - nella migliore delle ipotesi - "supporto psicologico" alla famiglia del Cicala» e avrebbe invitato i familiari a «scrivere» al detenuto.

«Che la Baldassari – scrive il pm De Nozza – si prendesse il disturbo di raggiungere un bar sotto sequestro per suggerire di inviare missive - evenienza, lo si ripete, già di per sé sconcertante - è un fatto tutt’altro che banale»: il pm infatti spiega che in quel momento erano in corso in carcere le intercettazioni degli investigatori – di cui la direttrice era certamente a conoscenza – e quindi chiedere ai familiari di scrivere lettere «avrebbe celato un invito alla prudenza per i colloqui in carcere che da lì a poco avrebbero avuto con il Cicala». Per l’Antimafia, quindi, la direttrice riservava un trattamento di favore a Cicala e ad altri pochi detenuti: una selezione di rapporti caratterizzata, secondo il magistrato della Dda di Lecce, «dal suo desiderio di intessere fitte reti di relazioni sia all'interno che all'esterno del carcere, relazioni che le garantivano, sempre e comunque, una posizione di vantaggio». E grazie a quella rete, avrebbe ottenuto il sostegno elettorale del gruppo guidato da Michele Cicala che in quel periodo rivestiva la carica di «capo-quartiere», era cioè l’esponente della criminalità che funge da punto di riferimento per gli abitanti della zona. La stessa direttrice, inoltre, durante quel periodo si sarebbe interessata per far ottenere a Cicala un trasferimento e farlo tornare nel carcere di Taranto, ma senza riuscirci.

«Le indagini – ha concluso il pm De Nozza - hanno documentano una triste e disdicevole pagina di storia istituzionale della città di Taranto che coinvolge quello che nell'immaginario collettivo è un avamposto di legalità, la Casa circondariale "Carmelo Magli"» intitolata «alla memoria dell'agente di Polizia Penitenziaria trucidato dalla criminalità tarantina quale atto di intimidazione verso le forze di polizia». In quelle conclusioni, pur chiedendo l’archiviazione delle indagini, ha scritto chiaramente che «accettare la promessa di ottenere voti» attraverso l'intermediazione di esponenti di spicco della criminalità tarantina delle «famiglie dei soggetti detenuti sotto la sua custodia, rappresenta, forse, il punto più basso sul fronte etico, deontologico, morale e professionale della storia dell'amministrazione penitenziaria tarantina, tanto da avere imposto una reazione di massimo rigore, vale a dire la sospensione dalle funzioni: un mix acre di potere pubblico e ambizione politica che ha provocato un danno immenso all’immagine dell’amministrazione e, in ultima analisi, della giustizia italiana». 

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