La sentenza

Taranto, il custode delle armi della mala patteggia tre anni

Francesco Casula

Finito ieri mattina in carcere, deteneva le armi utilizzate in diversi fatti di sangue dell'ultimo anno

TARANTO - Ha patteggiato una pena a tre anni di reclusione il 53enne Rino Solfrizzi finito ieri mattina in carcere, l'uomo che deteneva le armi utilizzate dalla mala di Taranto in diversi fatti di sangue dell'ultimo anno. Il suo difensore, l'avvocato Pasquale Blasi ha ottenuto l'ok del pubblico ministero Francesco Sansobrino per il patteggiamento che infine ha incassato anche il via libera del giudice Francesco Maccagnano. L'uomo è accusato di detenzione di armi, ma è una delle pistole trovate dalla Squadra Mobile ad aver sollevato numerosi interrogativi: si tratta infatti di una pistola semiautomatica Beretta modello 84FS rubata nel comando della Polizia Locale di Triggiano e utilizzata sia nel tentato omicidio di Salvatore Albano nella notte tra l'8 e il 9 maggio scorsi a Paolo VI sia nel far west che il 1 febbraio 2022 seminò il panico nello stesso quartiere quando, in poche ore, si susseguirono tre sparatorie e un conflitto a fuoco.

Il 13 maggio scorso hanno ritrovato l'arma in un deposito di via Icco, un locale utilizzato esclusivamente dal 53enne: le analisi compiute dal Gabinetto Interregionale della Polizia Scientifica hanno accertato che non vi sono impronte riconducibili al 53enne, ma hanno però appurato che la matricola è la stessa dell'arma rubata a Triggiano il 13 gennaio scorso e che c'è una compatibilità tra i proiettili della pistola e alcuni dei bossoli ritrovati dagli investigatori il 9 maggio scorso quando un sicario sconosciuto apri il fuoco contro il 48enne Albano. Un unico colpo sparato frontalmente a distanza ravvicinata per punire uno sgarro maturato probabilmente per futili contrasti nel mondo degli stupefacenti. Una sorta di avvertimento per Albano che aveva già alle spalle diversi anni di carcere per reati connessi allo spaccio di droga.

E un'altra compatibilità è stata individuata dagli esperti della Polizia Scientifica con i bossoli ritrovati a febbraio 2022 dopo il far west che si scatenò a Paolo VI: un altro regolamento di conti, ma non per il controllo dello smercio di stupefacenti, ma per le voci che sfregiavano l’onore di un boss detenuto e che dalle strade del quartiere erano arrivate dentro le mura delle carceri. Questioni familiari diventate in breve questione di prestigio criminale avevano da punire col sangue.

Il primo a farne le spese era stato Francesco Russo, accusato di aver amplificato quelle voci: malmenato da Mario Fagotti, Russo decise di vendicarsi dell’affronto subito e il 1 febbraio si recò davanti al cancello dell’abitazione dell’avversario ed esplose alcuni colpi di pistola poi si presentò dinanzi alla stazione di servizio Tamoil all’ingresso di Paolo VI, che secondo gli inquirenti è di fatto riconducibile proprio a Fagotti, e sparò altri due colpi che raggiunsero il soffitto. Fagotti, però, non rimase a guardare: con Agostino Bisignano impugnò immediatamente le armi, salì a bordo dell’auto e si mise alla ricerca di Russo. Lo incrociarono a bordo di una Smart all’altezza della statale 172 e aprirono il fuoco, ma mentre lo inseguivano persero il controllo dell’auto che finì sul guardrail e per via dei danni si fermò. Il commando bloccò così la prima auto di passaggio ordinando a un giovane estraneo ai fatti di seguire la Smart da cui partì una nuova raffica di colpi che solo per miracolo non trafisse nessuno.

Insomma storie apparentemente diverse potrebbero avere un unico filo conduttore.

Privacy Policy Cookie Policy