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Bob Dylan soffia nel vento del blues

Ugo Sbisà

«Umbria Jazz», eterne emozioni col mito

PERUGIA - Nell’estate in cui Umbria Jazz celebra il mezzo secolo della sua nascita - che però non coincide con cinquanta edizioni - Bob Dylan riporta indietro le lancette dell’orologio con un concerto mobile free nel quale il pubblico è invitato a lasciare a casa i telefoni cellulari o, quantomeno, ad accettare che all’ingresso vengano spenti e sigillati in buste che ne impediscono l’uso. Niente da fare, quindi, per i fanatici dei selfie e per quanti ormai vivono la musica quasi esclusivamente come un evento da condividere in tempo reale sui social. «Siete venuti per ascoltarmi, non per vedermi», sembra voler dire implicitamente Dylan e se per buona parte del suo pubblico, avendo passato da un bel po’ la cinquantina, si tratta di un salutare ritorno al passato, per i più giovani l’esperienza è decisamente nuova e forse addirittura straniante.

Nella serata inaugurale della kermesse perugina, restano al buio persino i due maxi schermi posti ai lati del palcoscenico di Santa Giuliana, quelli che, in genere, consentono di vedere meglio il palco a chi occupa le file più lontane e anche questo contribuisce a dare alla serata un inedito sapore retrò che si intona alla perfezione con la scarna scenografia del concerto, la quinta occupata da un grande drappo in velluto rosso, come in un club Usa di quelli un po’ datati. Dylan resterà una presenza solo vocale per buona parte della serata, rintanato dietro il pianoforte - lui che pianista, almeno in senso stretto, proprio non è - posto trasversalmente al palco e per giunta posizionato dietro la band, in modo da renderlo ancor meno visibile.
Al centro di questo tour, ci sono in buona parte sulle canzoni di Rough and Rowdy Ways, ultimo anno del Nostro, uscito ormai tre anni fa, nessuna autocelebrazione e meno che mai i grandi titoli del passato.

C’è innanzitutto tanto blues a fare da cornice a una voce che col tempo - Dylan ha ottantadue anni - diventa sempre più di carta vetrata assumendo dei toni quasi declamatori, da sprechgesang intriso di umori country e dimentica di quelle buone regole di emissione e intonazione che in verità l’artista del Minnesota non ha mai preso in grande considerazione per tutto l’arco della propria carriera. E poi ci sono i testi, quelli sì forti e incisivi, nei quali è ancora possibile individuare i cromosomi delle Dust Bowl Ballads di Woody Guthrie. Nel lungo, intenso Murder Most Foul appare l’ombra di Kennedy, ma il suo verso più forte è quello che recita «solo gli uomini morti sono liberi»: poche parole che racchiudono di tutto, dalla storia della schiavitù all’assassinio di George Floyd. Il lento Black Rider, con le sue atmosfere vagamente dark, è una lunga riflessione sul senso della vita e sulla sua fine, perché, ricorda Dylan, alla fine si dorme «nello stesso letto con la vita e con la morte».

Riflessioni sul mondo contemporaneo nelle quali Dylan gira intorno ai temi della creatività, del ruolo riservato all’arte e ai suoi interpreti dalla società contemporanea, mentre in Mother of Muses l’invocazione dal sapore epico volge lo sguardo ai grandi pensatori del Novecento in un singolare incrocio tra Omero, Sigmund Freud e Karl Marx. Con lui, una band molto solida formata da Doug Lancio e Bob Britt alle chitarre, Donnie Herron a violino, chitarra e pedal steel, Tony Garnier al basso e Jerry Pentecost alla batteria.

Due ore di musica - introdotte dalla registrazione di un curioso incipit beethoveniano - durante le quali Dylan canta, strimpella il pianoforte, suona un piatto posizionato accanto a sé. Bisognerà aspettare il termine della serata per ascoltarlo all’armonica in Every Grain of Sand, tratto da Shot of Love del 1981. E sarà un suono quasi liberatorio, col pubblico - fino ad allora in religioso silenzio - finalmente in piedi ad applaudirlo e pronto ad accorrere sotto il palco per riuscire a vederlo da vicino nell’unico momento in cui, abbandonato il pianoforte, si concederà alla platea a figura intera.

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