Il ricordo

Sagre di Puglia e di Basilicata, l'amarcord: «Qui non ci siamo mai sentiti soli»

Andrea Di Consoli

Il panino, l'amore e la vita: sapore di Sud

La mia memoria torna indietro, ai tempi in cui, ancora ragazzo, andavo in bicicletta alle sagre delle varie contrade del mio paese lucano, curioso di ascoltare qualche gruppo musicale che cantava canzoni folcloristiche, eccitato di salire su una giostra traballante, felice di guardare negli occhi furtivamente quella ragazza che mi piaceva, e che ogni tanto mi contraccambiava con un rapido lampo negli occhi.

Avevamo quest’abitudine, alla fine degli anni ’80, di stare con le mani affondate nelle tasche di dietro dei jeans, e di stare a gruppi di tre, di quattro, di cinque, e di guardarci intorno famelici, febbrili, furiosamente timidi, sempre con in mano un panino ben imbottito di salsicce e melenzane, comprato al furgone del paninaro per qualche migliaio di lire, ché a quell’età si ha sempre fame, come i lupi.

Di giorno mi aggiravo silenzioso tra le piccole folle di fedeli che partecipavano ai vari riti religiosi, e ammiravo la devozione delle donne più anziane, che recitavano senza mai stancarsi l’Ave Maria, anche se a me interessava solo scherzare con gli amici, e provare a capire se la ragazza di cui mi ero invaghito sarebbe venuta, perché era tutta un’incognita, un tempo, l’attesa di un incontro.

Sono trascorsi trent’anni, ma ho ancora vive davanti a me quelle atmosfere, quelle persone, quel popolo, quelle donne, quelle giostre, quelle aste, quelle fiere di animali, quelle gare a chi saliva prima sulla Rocca, quegli uomini soli abituati a stare giorni e giorni in silenzio nei campi o con le bestie e che alle sagre si scatenavano, bevevano birre su birre, perdevano il controllo, e o si mettevano a ballare senza freni al suono di una fisarmonica, oppure si arrabbiavano per un niente, e facevano piccole risse, qualche scazzottata, oppure piangevano, improvvisamente travolti da un ineffabile male di vivere, e dicevano che si dovevano impiccare.

Non me lo sono mai più tolto dalla testa quel calore lì, mi è rimasto addosso come una camicia sudata in un giorno di sole. Eravamo popolo, bastava poco, una bicicletta, una birra, uno sguardo, una cassetta musicale comprata dai marocchini, che ridevano sempre, con i denti rotti, i capelli ricci e neri, e ci chiamavano «cugini», e pure noi li chiamavamo «cugini», ed erano popolo pure loro, ed era popolo il prete, era popolo il sindaco socialista, l’assessore, il medico grasso, il vaccaro, l’ingegnere che veniva dal paese e pure se era vestito meglio di noi delle campagne, alla fine era pure lui uno di noi, e parlava come noi, perché in quel tempo nessuno parlava l’italiano, la nostra lingua era il dialetto, solo il dialetto.

Sento ancora l’odore dei corpi, delle Nazionali senza filtro, della miscela dei motorini, della nafta dei gruppi elettrogeni, dei sudori dei contadini che erano venuti alla festa solo sciacquandosi il viso e il collo, perché avevano quest’abitudine, i contadini del mio paese, di sciacquarsi il collo, e di asciugarlo con un fazzoletto di stoffa. Mille volte l’ho tradito, questo mondo, e mille volte l’ho portato con me come una bussola per non sbagliare strada quando mi sono perso, in questa lotta estenuante tra fuga e devozione, tra rabbia e nostalgia. Ma pure adesso che sono grande e lontano, dico che non si sbaglia a stare là in mezzo, anche se ora i corpi sono diversi rispetto a trent’anni fa, e tutti si vestono meglio, e parlano italiano, e sono più informati, ma se poi li guardi bene, così mescolati, alla fine ti accorgi che tutto cambia e niente cambia, e che in fondo le cose rimangono sempre le stesse, e che non bisogna essere ricchi per divertirsi, e che non fa poi così male stringersi agli altri, essere come gli altri, uguali agli altri, e affidarsi a una preghiera, a una benedizione, a una speranza, perché nessuno lo sa cosa è la vita, e dove andiamo a finire, nemmeno quelli che hanno studiato e si sentono migliori, e che magari alle sagre non ci vanno perché loro non sono popolo, loro sono migliori, loro hanno studiato, anche se nemmeno loro hanno capito cos’è la vita e dove andiamo a finire dopo che siamo morti.

Rivedo Mario all’asta dei tronchi, Fedele che canta col suo gruppo folk, Francesco con i suoi buoi altissimi e bianchi, rivedo Omero che fuma, e ora è un pugno di cenere, ché un carcinoma polmonare se l’è portato via, e rivedo mio padre con una birra in mano, quando ancora poteva berle prima di ammalarsi, e ha meno degli anni che ho io adesso, e sorride, e mi guarda con divertita severità, e mi fa vergognare di cercare lo sguardo di Stefania, che come al solito è uscita con la madre, e non sta mai sola, e mi parla solo attraverso sguardi che non so decifrare. Intanto ballano la tarantella, e c’è sempre qualcuno più bravo degli altri che fischia, e fa la quadriglia, e sta con le mani sui fianchi, e si muove intorno a qualche donna più audace, ma sempre a distanza, perché la donna è sempre un po’ lontana, quando la rispetti, e nei timore. Pure mia madre rivedo – mia madre che ora sta davanti a Canale 5 stordita per le troppe medicine che prende – e si lascia andare, e ha poco più di trent’anni, anche se io proprio non riesco a ricordamela giovane, mia madre.

La vita era tutta lì, non pensavamo a Maratea, a Milano, a New York, ci bastavano Fratta, Piano Incoronata, Zarafa, Pedali, Pedarreto, avevamo tutto quello che ci occorreva, e anche se poi ce ne siamo andati in tanti in cerca di cose strane che poi sono cresciute nella testa, in tutti noi è rimasta questa cosa che lì c’è ancora tutto quello che ci occorre, e non serve tornarci con il corpo, ma basta sentirselo dentro, cercarlo ovunque ci si trovi, e mescolarsi, chiudere gli occhi, così all’improvviso tornano tutti quegli odori, e di nuovo non si è niente, non si è migliori o peggiori degli altri, si è solo popolo, perché essere popolo significa che il destino è uguale per tutti, e che alla fine la vita ha tregua solo se ti bevi un bicchiere di vino con un amico, oppure se sogni di innamorarti, oppure se un po’ ci credi al prete che ti dice che la vita ha senso, e che i santi esistono, e che un giorno resusciteremo tutti quanti con lo stesso corpo che abbiamo adesso, un corpo caldo, col cuore che batte forte, e le mani che stringono chi ci ama, e accarezzano il viso scavato e stanco di una madre che pure fu giovane, e forse un giorno, proprio come Stefania, camminava nella calca e lanciava sguardi furtivi a un ragazzo che poi si è andato a spaccare la schiena a Uster, a Schaffausen, a Francoforte, a Lione, e magari non è più tornato, anche se ogni notte si sogna il paese, la quadriglia, i buoi alti e bianchi, e tutto questo dà forza quando la vita si perde e fa troppo male, e allora l’unica consolazione è che sei come gli altri, e anche se sei lontano puoi sempre mescolarti con loro, pure allettato, e così mescolato nella festa non sei più solo, senti calore, pure la morte non fa più paura, se torniamo a morire tutti insieme.

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