La storia

Le lacrime da Gaza fino al Salento, Emanuela: «Ho perso un nipote, un altro è disperso»

Pierfrancesco Albanese

Il marito, Mohammed Abuowda, è originario di Gaza. Beit Hanun, ad appena sei chilometri dalla città israeliana di Sderot. Anche lui, come Emanuela, le notizie le apprende via telefono, ma da fonti più vicine perchè ora è in Turchia

LECCE - Emanuela Franco è a Novoli, ma cuore e testa sono a Gaza. Dal telefono segue costantemente gli aggiornamenti dalla Striscia, un po’ dai notiziari, un po’ per interposta persona. Il marito, Mohammed Abuowda, è originario di Gaza. Beit Hanun, precisamente, nel nord est della Striscia, ad appena sei chilometri dalla città israeliana di Sderot. Anche lui, come Emanuela, le notizie le apprende via telefono, ma da fonti più vicine. È in Turchia, di rientro in queste ore a Novoli. Ma dall’altra parte della cornetta ci sono i suoi familiari, tutti intrappolati a Beit Hanun, sotto i bombardamenti. Lui allo scoppio del conflitto era in territorio turco. Ora per avere informazioni attende la chiamata dei parenti: una, massimo due al giorno, racconta, e per apprendere solo notizie sconcertanti.

«Dal 7 ottobre mia sorella non trova suo figlio di 14 anni. Non sappiamo se sia vivo o morto. Il figlio dell’altra mia sorella, invece, è morto nei primi giorni del conflitto». Con tono profondo racconta ciò che i familiari riferiscono. «Mia madre e mio padre sono rifugiati in una scuola, perché fuori è tutto distrutto. A Beit Hanun non ci sono più case né strade, e molte persone sono ancora sotto le macerie», racconta. Ad informarlo giorno per giorno è anche la voce della figlia, nata da una relazione precedente. «Mi ha riferito che non c’è cibo, non c’è acqua e ci sono venti, trenta persone in ogni classe della scuola. Mancano anche le medicine, e le bombe non si fermano mai».

Emanuela, a Novoli, attende ora il marito. Quei territori devastasti dalle bombe le sono familiari. Tra il 2017 e il 2022 è entrata nella Striscia di Gaza cinque volte: una passando per Eretz, presidiata dalle truppe israeliane; le restanti dal valico di Rafah, vivendo per diverso tempo in quelle case ora ridotte a mattoni tra i mattoni nel cumulo indistinto di macerie. «I genitori di mio marito - spiega - avevano una casa a Beit Hanun che è stata bombardata, come quella che avevano a Gaza City. Per questo ora sono nella scuola». Della vita in Palestina racconta anche la normalità, prima del conflitto. «La vita nella Striscia di Gaza, nel momento in cui non ci sono bombardamenti, trascorre abbastanza normalmente. Bisogna immaginare Gaza come una nostra città del Sud: i palestinesi sono gente accogliente che ama anche divertirsi, pur con tutte le restrizioni dovute al controllo di Hamas». Con i militanti Emanuela non ha mai avuto a che fare, se non indirettamente e sempre per il tramite del marito. «Per due volte al mio arrivo hanno torchiato lui. Alla prima gli hanno chiesto chi fossi e gli hanno sequestrato il telefono per un paio di giorni, perché per loro potevo essere una spia israeliana; alla seconda lo hanno bendato e messo con la faccia al muro». L’esperienza gomito a gomito con i palestinesi le ha fornito una chiave di lettura del conflitto, che condivide dalla sua abitazione a nord di Lecce: «Hamas - dice - sul piano interno è quello che spegne la musica a Capodanno perché le donne non possono ballare: a nessuno piace vivere così. Sul piano della politica estera però portano, con metodi che io ritengo sbagliati perché sono contro ogni guerra, un’istanza di liberazione. È difficile per un palestinese bombardato ogni giorno non sentirsi coinvolto».

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