La storia

Iran, «vi racconto la Teheran che ho lasciato»

Carmela Cosentino

Vive a Matera l’artista che manifestò contro il regime nel 2009

MATERA - «Il regime iraniano non transige, il regime iraniano uccide». Giovani, donne, bambini. Nessuno sfugge alla repressione sanguinaria del governo di Ebrahim Raisi. L’ultima vittima, Mohsen Shekari, 23 anni, impiccato l’8 dicembre a Teheran. È il primo manifestante messo a morte dall’inizio della rivolta, a settembre. Una rivoluzione che non si placa, scatenata dalla morte di Mahsa Amini per mano della polizia morale, per aver indossato l’hijab «in modo inappropriato». «Lei è una delle centinaia di vittime del regime, ma nell’ultimo periodo sono più di 600 le persone uccise», dice Kiana Tajammol attrice, artista visuale e regista in un’intervista alla Gazzetta. Dal 2019 vive a Matera, una piccola realtà rispetto a Teheran, città dove è nata nel 1988 e dove ha vissuto fino al 2011, prima di lasciare il suo paese per trasferirsi a Milano e studiare Nuove Tecnologie dell’Arte all’Accademia di Brera.

Attivista dei diritti sociali e politici, non si è mai fermata nel denunciare un governo che definisce «criminale», «che uccide tuo figlio e ti presenta il conto per riavere il suo corpo, chiedendoti anche i soldi delle pallottole usate per ucciderlo, e che, ad ogni funerale uccide un’altra persona, come un loop che non si arresta. La gente è stanca e arrabbiata». Kiana mentre racconta la sua storia, ripercorre gli ultimi dieci anni vissuti a Teheran, tra teatro clandestino e manifestazioni in piazza. Nel 2008 ha iniziato la sua carriera da attrice insieme ad un collettivo di attori dell’Università d’Arte di Teheran. A causa della censura, venivano organizzate serate teatrali clandestine, interrotte dopo la repressione del Movimento Verde nel 2009. «Mettevamo in scena testi censurati scritti da ragazzi universitari, che affrontavano questioni di carattere sociale e politico, e tra i tanti spettatori, c’erano tanti i professori universitari, anche loro vittime di questo sistema».

Il teatro è solo una parte di un mondo sommerso che si aggrappa alla normalità per sopravvivere. Un mondo parallelo dove tutto è possibile ma solo per qualche ora. «Ma questa che vita è? Il nostro è l’unico Paese in Medio Oriente che decide cosa devi indossare, che non ti permette di essere felice, che ti uccide se suoni il clacson alla fine di una partita di calcio, dove il popolo iraniano ha tifato per l’America. Un Paese dove il lavoro manca e la gente è felice se vengono applicate più sanzioni economiche perché sperano che in questo modo il regime si indebolisca».

Kiana continua il suo racconto. Si sofferma al 2009, anno della «rivoluzione verde». Era in prima linea a manifestare. «Con me c’erano mia madre, mia sorella e mia nonna. Donna credente, che prega, che mette il velo per scelta personale anche a casa. Lei ha manifestato perché non vuole questo regime che uccide le persone. Ormai tutti sono contro il regime, forse solo una bassissima percentuale di persone che si stanno arricchendo dal sistema non vuole la rivoluzione». Nel 2009 Kiana aveva solo 22 anni. Dopo quell’esperienza è dovuta andare via, per studiare, come fanno molti giovani iraniani, ma il suo impegno per denunciare i crimini del regime non è mai cessato. A Milano ha collaborato con musicisti della scena elettronica milanese realizzando lavori che denunciano casi di ingiustizia sociale. A Matera ha portato una mostra dal titolo «43» che ripercorre i 43 anni di resistenza e morte in Iran. Collabora con le associazioni per organizzare incontri e dibattiti anche nelle scuole.

Quando Kiana parla del suo Paese, gli occhi diventano lucidi. Kiana in persiano significa «bellezza del creato» ed è proprio questa bellezza che le manca della sua terra. «Mi manca camminare per le strade e vedere volti iraniani. Sentire gli odori e i profumi della mia terra. Forse un giorno tutto cambierà, ma fino ad allora continuerò la mia battaglia usando il linguaggio dell’arte. Amo il mio Paese».

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