Lessico meridionale

La «iosa» alla barese e quella parlamentare

Michele Mirabella

Così si indica un chiasso molto articolato, un chiasso composto di berci e urla ma, anche, di invettive e gesti

«Iosa» è parola italiana e sta per grande quantità, abbondanza. L’etimologia è incerta e l’uso circoscritto a quella frase idiomatica che indica, per l’appunto, quantità vicine allo spreco: «ce n’è a iosa, aveva denari a iosa, conquistò donne a iosa». Nella lingua barese, ma, anche della provincia nostra, la «iosa» designa un chiasso molto articolato, un chiasso composto di berci e urla, ma, anche, di invettive e gesti. Si, anche gesti, perché la «iosa» ben fatta è strumentale, finalizzata. Possono armarla i bambini che urlano per far sapere che stanno al mondo, possono instaurarla adulti avvinazzati per riempire i vuoti tra i brindisi, possono, infine, lasciarsi andare ad essa per allegria o furore, per gioia di convitati o afflizione di prefiche (un tempo celebri le «iose» delle piagnone ai funerali). Da bambino la ricordo come raccomandazione abituale degli adulti di «non fare la iosa», così come era frequente, nei resoconti delle polemiche sentir dire che il tale era venuto a fare la «iosa» per ottenere, rivendicare, minacciare. E, magari, alla fine avere torto.

Quindi non dobbiamo confondere il fare la «iosa» con il più becero ed insufficiente, diciamolo, «fare casino», tanto in voga nella pratica colloquiale d’oggi. Oltre la genericità e la bruttezza dell’espressione, di questa locuzione va rilevata la inadeguatezza e inadempienza storica. I casini, i bordelli statali, insomma, erano, mi hanno raccontato vetusti bighelloni, assai ordinati e garantiti nella pulizia imposta dalle regie autorità di pubblica sicurezza, oltre che dalla severità della maitresse e dalla periodicità delle visite sanitarie. E non va dimenticato che la delicatezza de, diciamo così, il servizio, imponeva ferree regole quanto a rumori e schiamazzi. Dunque, definire un luogo disordinato e rumoroso «casino» è improprio oltre che, storicamente, sbagliato.

«Iosa», a Bari, è termine intraducibile efficacemente con una sola parola. Si, certo, potrebbe dirsi schiamazzo, ma non basterebbe o chiasso e sarebbe limitato al suono di voci disordinate o vocio con clamore. La iosa può essere casuale e provocata da inconsulti eventi o intenzionale e programmata. «Andare a fare la iosa» sta per protestare vivacemente. La iosa può essere singola e plurale. Anche un solo individuo può produrre una iosa soddisfacente ed efficace. Ma la iosa corale di una moltitudine è un evento clamoroso: può essere lucidamente motivata e servire una causa, un’idea, ma può anche essere casuale, scapricciata e fine a sé stessa. Come quella dei bambini che fanno la iosa per indole spontanea e per affermare la loro arrogante spinta a prendere il nostro posto di «iosatori» progettuali.

È, la nostra, una società rumorosa perché è una società che ha paura. Teme il pensiero, la riflessione. Non piacciono i suoni, piacciono i rumori. Più sono sgangherati e sgradevoli, meglio è, più sono efficaci per esorcizzare il terrore di essere costretti a riflettere, a meditare. Almeno una volta, solo una volta al giorno. Ed ecco che i suoni latitano, sono schiacciati, obliati. Chi può dire di conoscere la poesia dello stormire, del fruscio, del cinguettare, del solitario mormorare di un’acqua, dello sciabordare delle onde. No, tutto è iosa, iosa maledetta: bambini isterici, micidiale traffico, diffuso rimbombo di musicacce, urla, grida, lavori in corso, tambureggiare di una vita stolta e inutilmente sonora ci tolgono la pace. Il rumore inconsulto generalizzato smonta quello che sarebbe utile, al bisogno. Come fai a distinguere la iosa di una ribellione sacrosanta, di una protesta, di un’invocazione, nel trambusto inconsulto e generale che rimbomba nel pianeta? Il grido del ribelle, il «ça ira» di qualche rivoluzione sacrosanta, l’invettiva contro il despota, la rabbia dei giusti, l’urlo di gioia o di dolore della fatica di vivere annegano miseramente in questa poltiglia di rumori che ci inebetisce.

«Ogni lingua ha il suo silenzio» avverte Elias Canetti. E il linguaggio? Hanno i loro silenzi i linguaggi mediatici? Istintivamente, oscuramente, siamo inclini a considerare il silenzio come espressione di dignità, realtà seria e, talora, compunta: il minuto di silenzio, il Silenzio paradossalmente suonato dalla tromba lancinante dei soldati in occasioni tragiche. E accade, purtroppo, a volte, da ultimo, nella versione detta «fuori ordinanza» che commuove alle lacrime.

Possibile che non si riesca ad avere il silenzio dai mezzi di comunicazione? Dovrebbero, gli addetti, sapere che si comunica anche con il silenzio. Non ricordano il postulato della scuola di Palo Alto che recita che non si può non comunicare? E allora perché fanno rumore? Sempre, anche quando il silenzio serve ad ascoltare.

A proposito: sopravvive la «iosa» parlamentare. Sembrava scomparsa e, invece, da ultimo, i cittadini italiani hanno potuto assistere, grazie ai «media» ad una iosa rissosa alla «Camera dei Deputati». Le immagini attutite da un misericordioso appannamento dell’audio, erano «rumorose» di calci, sberle, cazzotti, pedate. Iosa parlamentare.

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