Punti di vista

Lecce, rime e musica per sfidare l'indifferenza

Luisa Ruggio

Nei dintorni del convitto Palmieri, l'espressione artistica dei giovani con il freestyle

BRINDISI - Ecco un episodio musicale significativo, che dice l’indipendenza dei cantautori di strada: Freestyle, stile libero, un fenomeno vitale alla stregua delle partite di calcetto nei cortili o degli stornelli che i nostri nonni scagliavano come sassi. Alcuni scrivono storie nell’aria, fiammiferi che si accendono una volta sola, lontano dai clamori di corte e dalle sale di registrazione. Scelgono una base, un motivetto un po’ così, e ci rappano sopra con una potenza terribile, in grado di risvegliare qualcosa che nei vicoli dei centri storici, come in quelli di periferia, negli ultimi due anni sembra essere morto. Perché di questi tempi, sarebbe il caso di cantare per convocare i vivi, quelli che hanno le orecchie, ma non sempre sanno cosa farne.
A Lecce, se passi verso sera nei dintorni del Convitto Palmieri, oppure attraversi la galleria alle spalle dell’anfiteatro romano, può succederti di sconfinare in un mondo sonoro e intercettare le improvvisazioni dei giovanissimi che non si sono arresi, malgrado il lockdown volontario di questi mesi. E, forse, è proprio questa la forza dei brani-fantasma che attraversano l’aria esplodendo come fuochi d’artificio quando meno te li aspetti.
Fermatevi e ascoltate, il tema centrale è la vita che cambia discorso in continuazione e che costruisce sulle assenze, come la poesia. Colpiscono certe strofe arrabbiate, eversive, che indicano quanto ancora possiamo sorprenderci di essere vivi. Ragazzi, sorprendenti e terrificanti come le fate, non riescono a immaginare il futuro, quello che viene dopo la Dad, il diploma e la laurea. Non possono immaginare un passato senza internet.
Qualcuno indossa una maglietta col disegno di un adolescente con un’esplosione atomica al posto della testa e la scritta: Overthinking. Troppi pensieri. Sembra filosofia, ma non lo è, ha a che fare con un’aderenza ancora più impellente al presente, il nostro. Che presente è il nostro? Per saperlo bisogna ascoltare i rapper, gli anonimi trovatori di quindici, sedici anni, questa meglio gioventù che è riuscita a surfare sulle quattro ondate della pandemia.
Chiamateli come vi pare, restano unicorni. Appaiono per ricordarci la questione primaria: la mancanza di senso del ritornello, se un senso non sai intonarlo tu. Ecco il popolo che più ha sofferto in questi due anni, ma non c’è gara. Hanno affrontato ogni giorno con le rime, rinchiudendosi in casa per poi trascinarsi fuori dalla zona di conforto che può diventare il luogo più tossico al mondo: la famiglia. Ho visto cose che voi madri... E anche loro, malgrado siano così freschi di liceo, sembrano averne viste già tante, basta ascoltarli cantare. Si sente nelle loro voci quel che ogni giorno assorbono per osmosi. Non fare questo, non diventare quello! Perciò alzano il volume delle casse e accendono il microfono in un vicolo, è il loro modo di protestare contro chi li ritrae un po’ troppo sdraiati, sparpagliando tutte le parole sul bit, come un dito medio alzato.

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