L'intervista
«Sia restituita al Sud la dignità che merita»: Monsignor Savino, pugliese, e la lotta contro le disuguaglianze
«Lo Stato non lasci solo chi dice no al male e poi si trova fra paura e solitudine»
Mons. Francesco Savino, 68 anni, originario di Bitonto (provincia di Bari), è stato eletto pochi giorni fa dall’Assemblea dei Vescovi nuovo vice presidente della Cei (la Conferenza episcopale italiana) per l’area Sud. Il giorno precedente la Cei aveva eletto il suo nuovo presidente, il cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna. Mons. Savino è Vescovo di Cassano all’Jonio (Calabria) dal febbraio 2015.
Mons. Savino, ora lei per la Cei ha la responsabilità di guidare tutta l’Area Sud. I mali del Meridione sono ben troppo noti. Quale può essere in questo contesto oggi il ruolo della Chiesa nel Sud sotto la sua guida e in affiancamento al nuovo presidente della Cei, il cardinale Zuppi? Quale può essere il giusto punto di equilibrio fra la Chiesa di sagre e processioni e la Chiesa in aiuto della gente?
«Più che guidare l’area Sud, il compito è quello di servire le Chiese che operano nel Sud Italia, portando avanti le istanze del Meridione all’interno della grande riflessione e dell’impegno della Cei, collaborando con la Presidenza e le strutture centrali. Sicuramente l’impegno del vice presidente dell’area Sud è quello di far sentire la voce del Sud ferito e attanagliato dalla criminalità organizzata nelle sue diverse forme (‘ndrangheta, mafia, camorra, Sacra corona…) ma anche dalla paura, dal fatalismo, dalla disoccupazione. Il mio, in verità, è un impegno che si rinnova perché sempre ho cercato di far emergere “la questione meridionale” mai veramente risolta, per restituire al Sud la dignità che merita. Il malcostume è diffuso, purtroppo, in tutt’Italia e se certi fenomeni si acuiscono al Sud è perché c’è più povertà, più bisogno e consapevolezza del proprio potenziale. Sono queste le corde che stringono al collo le popolazioni meridionali. Per quanto riguarda invece la pietà popolare è importante non confonderla con le sagre dei paesi o con una sua forma deviata. Essa è una forza evangelizzatrice che scaturisce dal Vangelo. Dice bene il Santo Padre quando sostiene che “l’essere umano è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso”, ed è in virtù di questo dinamismo che un popolo costantemente si ricrea, si rigenera tramandando dei valori che fondano le culture ma anche la fede. In questa prospettiva ciascuno traduce nella propria vita il dono di Dio che è, dunque, testimonianza in entrata della fede ricevuta ed in uscita, della fede donata ma arricchita da nuove espressioni. Papa Francesco ha ricordato anche che “nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito Santo” (EG 126). È chiaro che va purificata».
Alla piaga delle mafie si associano i nodi del lavoro che non c’è e del conseguente esodo dei nostri giovani, dello sfruttamento sul lavoro (con i vari gap fra uomini e donne) per chi riesce a trovarlo qui o si adatta…
«Con i Vescovi calabresi abbiamo scritto tanto sul valore del lavoro e sull’impegno a tenerlo al riparo da quei fenomeni che offendono il Vangelo: dalla mafia, all’ingiustizia, allo spreco di risorse economiche. Vivo in una terra che ogni anno lascia andare via migliaia di giovani brillanti e, la mia più grande paura, è che ci siamo quasi abituati a questi abbandoni, al punto da ritenerli necessari e da considerare eroi coloro i quali decidono, dopo molti anni, di tornare a casa. È bene che i giovani vadano a contaminarsi in altri luoghi ma sarebbe opportuno garantire loro la possibilità di scelta. Quelli che restano hanno diritto a sognare allo stesso modo di quelli che decidono di andare via. Questo deve valere sempre e per tutti ed un po’ di più per le donne, le eterne dimenticate dalla società. L’impegno deve essere costante ed il cambiamento, anche se lento, efficace. Dobbiamo creare dei percorsi che rendano il Sud, dal punto di vista lavorativo, più affascinante. Non è una sfida semplice ma la sento profondamente mia. Come anche Papa Francesco ha suggerito, i giovani devono tirar fuori quella creatività che permetta di costruire forme di economia alternative alla cultura dello scarto, devono quindi sporcarsi le mani. Insieme a questi mali le Chiese che sono nel Sud, aiutate dalle Chiese sorelle di tutt’Italia, devono farsi voce dei ritardi epocali che toccano anche il welfare, la sanità pubblica, la scuola e gli ambiti delle università e dell’industria. Il meridione ha tante potenzialità, è una terra di grande accoglienza ma non può essere solo un porto di passaggio per i migranti né il porto di partenza dei suoi figli che esprimono belle intelligenze, carismi e talenti».
Torniamo al problema criminalità organizzata. Lei ha vissuto per tanti anni a Bitonto, poi è stato designato Vescovo in Calabria. Fra clan baresi e ‘ndrangheta, in veste di Pastore della Chiesa, ha mai dovuto affrontare in qualche modo queste realtà in termini diretti? Crede nel possibile recupero etico e sociale di chi ha compiuto crimini anche efferati?
«Io credo fermamente che il bene alla fine vince. Che l’uomo può uscire dal tunnel del male che ha imboccato, ma ciascuno deve fare la sua parte. Urge un’alleanza sempre più forte tra le istituzioni, le cellule buone della società, la politica, la scuola, le parrocchie, per il riscatto di questa terra. Bisogna avere il coraggio di additare e denunciare il male ma anche tutelare quanti coraggiosamente si oppongono. Lo Stato si impegni a non lasciar soli quanti dicono il loro “no” al male e si trovano avvolti dalla nebbia della paura e della solitudine. La prima forma di lotta alla criminalità organizzata è la vigilanza. Se ognuno di noi iniziasse a sentirsi parte essenziale dello Stato, delle comunità religiose di appartenenza, allora acquisirebbe anche un coraggio diverso rispetto ai fenomeni malavitosi. Con queste realtà ci faccio i conti ogni giorno ma credo sempre che siano sempre più i buoni, coloro che decidono di convertirsi al Vangelo e che meritano di vivere un nuovo riscatto, scevro dal giudizio e dalle manipolazioni. La Chiesa cammina in parallelo con la parte genuina dello Stato, in un sodalizio tra Vangelo e Costituzione. Non è un caso che sia stato istituito un gruppo di lavoro, nel dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, sulla scomunica alle mafie. Ne fanno parte, tra gli altri, Don Luigi Ciotti e Rosy Bindi. La lotta alla mafia deve necessariamente passare attraverso la testimonianza di coloro che “ci hanno messo la faccia” per fare fronte comune».
La Cei sotto la nuova presidenza ha avviato un'indagine sul problema clero-pedofilia. Quali sono le prospettive di questo lavoro al Sud?
«Tutti stiamo già seguendo le azioni messe in campo condivise nell’Assemblea Cei e del Santo Padre nella logica assoluta della prevenzione, della denuncia e della trasparenza. La verità ci rende liberi. Al centro ci devono sempre stare i piccoli, gli ultimi e i fragili. Lo abbiamo fatto già in questi anni attivando nelle Diocesi il servizio di tutela, dei minori e degli adulti vulnerabili, e organizzando centri di ascolto».
Apriamo una finestra su un altro tipo di violenza, quella sulle donne nel Sud ancora troppo praticata. Dobbiamo aspettare altre martiri come Santa Scorese, la ragazza uccisa sotto casa a Palo del Colle, o già negli ambienti educativi come le parrocchie e gli oratori si sta facendo qualcosa per la prevenzione e l’educazione al rispetto delle donne?
«Nella mia diocesi, ma anche in altre calabresi e meridionali sono state avviate opere a favore delle donne, di quelle sfruttate o colpite da provvedimenti giudiziari. Ma insieme all’impegno della Chiesa serve una presa di coscienza sociale. Lo Stato, le associazioni, i centri antiviolenza devono fiorire nel nostro territorio. Noi dobbiamo fare la nostra parte nella logica del sostegno, della profezia e della supplenza. Ma deve crescere una coscienza civile che superi la cultura dell’indifferenza, dell’individualismo, della delega. I cittadini, che sono parte dello Stato non devono solo aspettare dall’alto l’intervento, ognuno deve fare la sua parte. Serve anche avviare un dialogo costante che faccia della denuncia un annuncio di salvezza. I femminicidi sono l’epilogo più triste, direi drammatico di storie di silenzi e accettazione. Serve rompere il muro di gomma della tolleranza, della sopportazione per paura. A causa della pandemia sono notevolmente aumentati i casi di violenza domestica, spesso tutti sanno e nessuno denuncia. Urge che le comunità siano dalla parte delle vittime. Bisogna abbandonare l’atteggiamento del “me ne frego” e vivere con il “mi sta a cuore”. Il grido di una donna vittima di violenza, anche quando è completamente muto, va ascoltato con il massimo della cura, altrimenti tutto si riduce ad una esposizione di scarpette rosse che risaltano solo agli occhi ma non allo sguardo dell’anima».
Nella sua nuova sfera di competenza ricadono anche la Capitanata con le sue problematiche sociali (una per tutte il ghetto di Borgo Mezzanone), Taranto con la sfida di bilanciare gli interessi industriali ed economici nazionali con la tutela dell’ambiente e della salute. Ha già qualche bozza di lavoro su questi temi nella sua agenda?
«Credo che sia necessaria un’azione comune tra Stato, Chiesa e società civile per riqualificare quelle periferie esistenziali di cui, troppo spesso, ci dimentichiamo. Sulla questione Capitanata so che sono in atto diversi progetti che coinvolgono la Regione Puglia ed il Ministero per l’Interno. Gli sportelli Caritas sono sempre attivi e rispondono al bisogno senza perdere la visione. Per Taranto si è fatto e si sta facendo moltissimo. Non a caso, l’ultimo appuntamento delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani si è svolto proprio qui. C’è stata una bella sinergia che ha coinvolto la Chiesa e molti laici impegnanti, a vario modo, nelle istituzioni. Di Taranto abbiamo apprezzato soprattutto le buone pratiche e, si spera, siano il modello di un nuovo tipo di economia, circolare, che riesca a bilanciare l’aspetto economico con la salvaguardia dell’ambiente, spostando l’ago della bilancia verso un agire sempre più green. Si è avviato un percorso e se sarà perseguito con passione, etica e cura, sicuramente si avranno grandi risultati. Sulle grandi problematiche del rapporto tra le Chiese e dell’ecumenismo, il dialogo è sempre aperto e generativo. La Chiesa italiana, attraverso la rete capillare delle comunità ecclesiali, delle associazioni e dei movimenti, deve attivare processi di fraternità inclusiva, in un’ottica che miri sempre alla cura per la pace. Alla preghiera, che non deve mai mancare, deve essere accompagnata un’azione solidale, coordinata, ispirata al Vangelo che non alza muri o steccati».
Un risvolto della guerra in Ucraina è anche una notevole intensificazione di manovre militari nei nostri mari Adriatico e Jonio: un triste paradosso se ricordiamo i due incontri con il Papa a Bari per la Pace nel Mediterraneo nel 2018 e nel 2020 e la figura di don Tonino Bello, il Vescovo di Molfetta che spese la sua vita lottando contro le guerre...
«La guerra è una grande pazzia. Le armi non risolvono i conflitti. Deve continuare a ritmo serrato la via della diplomazia, tenendo aperti i canali del dialogo e dell’incontro. Bisogna spingere perché le persone siano tutelate e custodite, soprattutto i deboli, le donne e i bambini. Don Tonino Bello è stato, con i suoi contemporanei, profeta di pace, di non violenza, ma oltre che con le parole con la sua testimonianza di vita. Ognuno di noi dovrebbe farsi testimone di questa ricchezza e seminarla in ogni luogo. Ognuno diventi testimone di pace con la propria vita e soprattutto, si investano capitali per i corridoi umanitari e non per armare civili, destinandoli a morte certa».
Prima della guerra, il Covid. Lei per vari anni a Bitonto è stato figura di riferimento del Santuario dei Santi Medici e si è prodigato per curare non solo le anime ma anche le persone nella loro fisicità. Ma oggi nel Meridione soffriamo il male di una sanità sempre più insufficiente, per non parlare delle vecchie e nuove povertà...
«Le opere realizzate non sono le mie opere. Sono solo la realizzazione del disegno che Dio ha tracciato per me e per la comunità affidata alla mia cura pastorale. Il mio non è stato solo un prodigarmi, è stato un soffrire con, un vivere la malattia dell’altro come fosse la mia, un com-patire. Questo mi ha aiutato ad intercettare quasi direi a prevedere il bisogno dell’altro e ad accompagnarlo. Spesso, gli ammalati, le persone fragili, hanno bisogno di qualcuno che condivida la loro condizione e, ovviamente, delle cure. Ho pensato e ripensato al grande tema delle “cure palliative”, per impegnarmi a restituire dignità all’ammalato sfigurato dalla sofferenza. Mi sono speso perché la mia esistenza fosse a fianco delle persone che soffrono, di quelli che ci ostiniamo a definire invisibili quando li abbiamo proprio sotto i nostri occhi. Per questo il mio impegno è costante nel proporre forme di welfare che siano generative e accessibili a tutti. E mi piace che lei associ i drammi della sanità alla povertà, trovo che siano strettamente correlati. Spesso, al povero, è negato perfino il diritto di curarsi magari perché non ha un posto “che conta” in società. Questa è una delle peggiori forme di violenza. Quando si nega assistenza ad un povero, si negano la civiltà e la democrazia, e cristianamente a Gesù».
Il clero nelle Diocesi meridionali: è un clero in crisi o lei lo vede in crescita? E quanto nel Sud esiste, se esiste, la crisi del clero sia sotto il profilo numerico sia qualitativo? Inoltre, si sta lavorando e come per evitare che la gente si accosti a comunioni, cresime, matrimoni e funerali nelle parrocchie e poi scompaia subito dopo la funzione?
«Il clero del Sud si porta dietro le problematiche che vivono tutti i presbiteri italiani a livello culturale e umano. Ci sono le implicazioni locali, l’individualismo e tante volte la rassegnazione. Ma al Sud come al Nord ci sono sacerdoti appassionati, la cui vita è dono. Sono tante piccole luci di speranza, accese qua e là, che tante volte non fanno cronaca ma scrivono pagine di storia e di vita condividendo tutte le sofferenze del loro popolo e il grido di queste terre tanto belle e amare. Queste sentinelle, seppure con fatica, cercano di guidare le comunità con profondo amore per la gente. Chi si sente realmente accolto e accompagnato con amore raramente abbandona la chiesa. Quanti sacerdoti ci fanno innamorare di Cristo e della Chiesa».
I suoi «colleghi» in Germania, primo fra tutti il cardinale Marx, sono favorevoli ad abolire l’obbligo del celibato per i sacerdoti. Lei ha un suo parere personale a proposito? E che ne pensa di metter fine alla esclusione delle donne dal sacerdozio?
«Su queste tematiche il Papa, le competenti congregazioni, si sono pronunciate e si pronunciano ancora, avviando percorsi di studio, ma soprattutto di un discernimento comunitario sapienziale. Come sosteneva il cardinale Carlo Maria Martini il celibato, in quanto legge canonica, può essere ripensato ma, mi permetto di aggiungere, di stare attenti a scelte emotive e frettolose».
Infine, una domanda strettamente personale: quando si trova in difficoltà, lei a quale Santo preferisce rivolgere le sue richieste di aiuto?
«Da buon meridionale dopo aver invocato lo Spirito Santo e la Madonna, il mio pensiero e la mia preghiera vanno a San Francesco di Paola. Ne porto anche il nome. Ma nel cielo stellato della santità rivolgo la mia preghiera di intercessione a quelli che ho incontrato più facilmente nel mio cammino di cristiano, di Vescovo. Penso a Madre Teresa di Calcutta, a Sant’Agostino, a Charles de Foucauld, a Giuseppina Bakita, a Carlo Acutis, al venerabile don Tonino Bello, a Santa Chiara e a san Francesco d’Assisi».