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Gli scritti sparsi di Dondero, un’antologia ritenuta necessaria

Anton Giulio Mancino

Un atto dovuto e certosino, non soltanto perché ricorre il decennale dalla scomparsa, ma per l’opportunità che consente ora di muoversi liberamente, senza una strategia precisa, cronologica, settoriale

«Entrammo nelle case e scoprimmo che gli anziani del luogo rivivevano, vedendo i soldati con gli elmi nazisti o gli elmetti piumati dei bersaglieri italiani, le emozioni del tempo di guerra. E poi partimmo per il nostro viaggio e, finito il nostro compito, ci godemmo nella notte l’incomparabile bellezza del firmamento del deserto». L’articolo si intitola “La rosa scarlatta di Monicelli”, l’autore Mario Dondero. Lo spunto è l’immensa distesa di sabbia libica, teatro bellico di lunga durata ricreato però lontano dal colonnello Gheddafi nella confinante Tunisia dall’allora ultranovantenne Mario Monicelli, alle prese con il suo ultimo, coraggioso lungometraggio, Le rose del deserto; quindi con il romanzo seminale di Mario Tobino Il deserto della Libia: così, per un caso causale si resta impressionati a pagina 282 della bellissima raccolta di testi d’occasione di un grande fotografo e intellettuale italiano, partigiano dapprincipio e fotoreporter “involontario”, comunque d’eccezione, quindi nel tempo e per le più svariate testate scrittore acuto come l’obiettivo della sua macchina.

L’antologia di Mario Dondero (1928-2025), intitolata appropriatamente Mille parole. Scritti sparsi, e curata dal giovane studioso Francesco Pascali, con Laura Strappa, e la postfazione di Massimo Raffaelli, costituisce un atto dovuto e certosino, non soltanto perché ricorre il decennale dalla scomparsa, ma per l’opportunità che consente ora definitivamente di muoversi liberamente, senza una strategia precisa, cronologica, settoriale. Piace insomma finalmente rileggerlo così, spizzicando tra le ricche sezioni del volume, tra ritratti artistici e geografia culturale, storica e politica, immagini fisse e in movimento, rimembranze e attualità di lunga durata, ossia “Amici e incontri”, “Fotografare”, “Istantanee sul mondo”, “Memorie del presente”, “Libri, film e altre passioni”, con associazioni d’idee, compreso il doppio anniversario monicelliano, a centodieci anni dalla nascita e quindici dalla morte, combinato a quello suddetto di Dondero.

Cominciare da un film per un fotografo che ne scrive, dunque ci è parso il modo migliore per ribadire il senso di questa testimonianza in forma di mosaico, diuturna e dilazionata nel tempo, nello spazio e a cavallo tra vari dispositivi e filtri di un reale inafferrabile dove la guerra fotografata e filmata si intreccia per sentieri multimediali in un multiverso a sua volta della coscienza allargata e trascritta; e dove la notte nordafricana e sciaguratamente imperiale, quindi coloniale, diventa quella della Repubblica la quale, superato il ventennio fascista e la devastazione del secondo conflitto mondiale, in Italia anche civile, si ritrova nella parabola disamorosa de “La notte” altrettanto allusiva ed evocativa di Michelangelo Antonioni, all’indomani della breve, nera e infausta stagione del governo Tambroni. Tra Ugo Mulas e Pier Paolo Pasolini, conosciuto grazie a Laura Betti, il racconto trasversale prosegue, alternando Francis Bacon e Serge Reggiani, Luciano Bianciardi e Anouk Aimée, l’analogico e il digitale, la Resistenza e il Sessantotto, Reagan e Piero della Francesca, gli italiani irrimediabilmente berlusconiani e altro bestiario assortito, antropologico, sociologico e più o meno fotogenico. Dondero è stato un testimone veritiero di un secolo vissuto e filtrato a cavallo di due, accorgendosi in questi “Scritti sparsi” di come «la sua prosa – scrive Pascali con calzante metafora cinematografica – proceda come in una carrellata all’indietro, dal dettaglio al totale, dando adito a una scrittura induttiva». E citando alla lettera Dondero, Raffaelli conclude la “carrellata”, a pagina 310: «Io credo nella responsabilità individuale. Credo si debba disobbedire, quando la legge è ingiusta. Ma non per difendere i propri interessi personali, cercando, per esempio di far passare la Costituzione, che è costata tante vite e tanto dolore, per un intralcio. Bisogna disobbedire alle leggi che difendono il razzismo, l’ingiustizia, l’emarginazione. Bisogna sostenere i diritti di ciascun essere umano». Questo, in estrema sintesi, vuol dire dar corso al motto di Walter Benjamin, «Una foto vale mille parole» (donde il titolo di questo volume insostituibile), che Dondero ha fatto suo in una modalità etica ed estetica, mostrativa e dimostrativa, nella più ampia gamma di espressioni concomitanti, sostenibili e costruttive. Con un avvertimento, datato 2012 e qui riportato a pagina 126, a proposito del rischio “ovvio” comportato dal digitale, nemico dell’analogico significativamente “ottuso”; vale a dire – con Dondero – che: «Il tempo talvolta costringe a pensare meglio a quello che si fa. E il digitale azzera questo tempo prezioso».

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