Note
La musica contro l’odio
Dagli anni ’60 al trauma di oggi
«How many times must the cannonballs fly, before they’re forever banned?» («Quante volte dovranno volare le palle di cannone, prima che siano per sempre bandite?»), cantava Bob Dylan in Blowin’ in the Wind (1962), con la semplicità disarmante che lo avrebbe reso uno degli inni più celebri della protesta contro la guerra in Vietnam. E ancora John Lennon, sette anni dopo, con Give Peace a Chance (1969), scandiva un coro collettivo - «All we are saying is give peace a chance» - diventato simbolo universale delle marce pacifiste. La musica, nei decenni caldi della Guerra Fredda, è stata non solo colonna sonora, ma anche manifesto politico e culturale: dai Jefferson Airplane a Crosby, Stills, Nash & Young con Ohio (1970), scritto dopo la strage di studenti a Kent State, ogni verso denunciava la violenza istituzionale e invocava un futuro di pace.
A distanza di oltre mezzo secolo, gli Stati Uniti tornano a fare i conti con un clima di conflitto e paura, anche se di natura diversa. Non più la leva obbligatoria o le bombe sganciate a migliaia di chilometri di distanza, ma una violenza diffusa, quotidiana, che trova nella polarizzazione politica e nell’epidemia di armi il proprio epicentro. L’uccisione recentissima di Charlie Kirk - figura mediatica controversa, divisiva, simbolo di una certa America conservatrice - ha rappresentato un punto di non ritorno. Non solo per l’omicidio in sé, ma per l’esplosione di odio reciproco che ne è seguita, con opposte fazioni pronte a trasformare la tragedia in un ulteriore strumento di scontro.
Se negli anni Sessanta erano i cantautori folk a guidare il coro della protesta, oggi la pluralità di voci è impressionante: dal rap all’indie rock, dalla canzone d’autore al gospel contemporaneo, la musica ha registrato le scosse telluriche della società americana negli ultimi anni. Tra le voci più potenti c’è stata quella di Kendrick Lamar, che già nel 2015 con Alright aveva fatto del ritornello «We gon’ be alright» («Ce la faremo, andrà tutto bene») un inno alle proteste del movimento Black Lives Matter. Dopo l’uccisione di George Floyd, il brano è tornato ad animare piazze e cortei, confermando come l’hip hop sappia trasformarsi in megafono delle rivendicazioni civili.
Un ruolo analogo lo ha assunto Childish Gambino con This Is America (2018), brano e videoclip che mescolano allegoria e denuncia frontale della violenza armata e del razzismo strutturale. L’immagine di Donald Glover - il vero nome di Gambino - che balla sorridente per poi impugnare un’arma, resta una delle metafore più potenti della contraddizione americana: il paese dello spettacolo e dell’intrattenimento che convive con una quotidianità segnata da massacri e odio.
La stessa linea di protesta è proseguita con artisti come H.E.R., che nel 2020 ha scritto I Can’t Breathe, brano premiato con un Grammy e diventato manifesto del dolore e della rabbia contro la brutalità della polizia. «That’s why we can’t breathe» («Ecco perché non possiamo respirare»), canta, intrecciando giustizia sociale e spiritualità in una ballata che ricorda la tradizione delle grandi canzoni di protesta afroamericane.
Non è mancata la voce del rock alternativo: i Run the Jewels, con Walking in the Snow (2020), hanno denunciato la normalizzazione della violenza e l’apatia delle istituzioni, in un album - RTJ4 - che ha trovato eco nelle proteste di piazza. Parallelamente, artisti come Bruce Springsteen hanno ripreso il filo della tradizione folk-rock civile: il Boss, con American Skin (41 Shots) - riproposta più volte dal vivo -, ha raccontato la vicenda di Amadou Diallo, ucciso dalla polizia nel 1999, mantenendo viva la memoria delle vittime.
Le voci femminili non sono da meno. Beyoncé, con Formation (2016), ha celebrato l’identità nera e insieme denunciato discriminazioni e violenze, mentre nel 2022 Angelique Kidjo e Alicia Keys hanno rilanciato messaggi universali di pace in più occasioni pubbliche. Parallelamente, il folk intimista di Suzanne Vega e la poesia aspra di Ani DiFranco hanno continuato a fornire chiavi di lettura personali ma politicamente sensibili sul clima di divisione. Dal versante più duro, l’industrial rock dei KMFDM ha ribadito la sua opposizione radicale alla cultura delle armi: brani come A Drug Against War (1993, riproposto nei concerti degli ultimi anni) o Guns Guns Guns (2002) suonano oggi profetici. Lo stesso vale per i Rage Against the Machine, tornati in tour nel 2022 con un repertorio che non ha perso nulla della sua carica di protesta sociale.
Eppure le reazioni non arrivano solo dalle frange più militanti. Dopo l’omicidio di Charlie Kirk, anche mondi musicali distanti dalla tradizione della protesta hanno espresso cordoglio e riflessione. Nel country, Kane Brown ha condiviso messaggi di dolore e ha intonato dal vivo cover come Amazing Grace, sottolineando l’urgenza di versi come «love each other while we can» («amiamoci finché possiamo»). Parker McCollum, Lee Greenwood e Randy Houser hanno fatto lo stesso, unendo fede, patriottismo e richiesta di unità. La Contemporary Christian Music (CCM) ha reagito con preghiere e canti di speranza: Peace Be Still di Hope Darst o i We Are Messengers con Wholehearted sono esempi di come il linguaggio spirituale cerchi di proporre riconciliazione in un’America ferita.
Così, come negli anni Sessanta, le note funzionano da sismografo: registrano le fratture, amplificano la rabbia, ma anche la speranza di un futuro diverso. «You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one» («Puoi dire che sono un sognatore, ma non sono il solo»), cantava John Lennon in Imagine (1971). Nel 2025 quell’eco sembra farsi di nuovo urgente, mentre gli Stati Uniti cercano una via d’uscita da un vicolo cieco di odio e violenza.