il libro possibile
«Lettori di tutto il mondo unitevi!»
L’urlo di Azar
Tempo fa, Azar Nafisi ha scritto: «Mio caro lettore, mia cara lettrice, in un mondo reso opaco dalle guerre e dalla conflittualità, dove i nemici possono arrivare a occupare la nostra mente più di quanto non riescano a fare gli amici, dove la menzogna si maschera di verità, abbiamo più che mai bisogno dell’immaginazione […] Per cui…Lettori di tutto il mondo, unitevi!». Il viaggio in Italia di una delle più importanti scrittrici del nostro tempo è iniziato dal Festival delle Letterature, al Palatino, per arrivare nella bella cittadina di Vieste, indicata dai greci, anticamente, come un “isolato rifugio”. Questo percorso per la scrittrice iraniana si compie soprattutto all’insegna della sua memoria, della sua testimonianza del tempo trascorso e dei tempi difficili che abbiamo sotto i nostri occhi.
Arrivando a Roma, Nafisi ha raccontato, davanti a un pubblico innamorato di quelle parole: «Da bambina tenevo sempre i libri impilati contro la parete accanto al letto. A volte mi addormentavo stringendo quello appena chiuso da mio padre. Ancora oggi il mio comodino è pieno di libri: mi rilassano e mi danno quel fremito nella spina dorsale di cui parla Nabokov. Amavo e amo ancora il modo in cui mi stimolano e mi trasmettono un senso di sicurezza e protezione. Li associo alla voce di mio padre: calma e confortante, intima, ma capace di evocare sentimenti ed emozioni forti. Grazie a quelle storie, di fronte a me si dispiegava il mondo intero, si aprivano porte magiche dove creature incantate mi aspettavano per darmi il benvenuto».
Il conforto dei libri - e per tanti di noi è così - arriva e arriva sempre per chi si mette in ascolto davvero davanti a una pagina, a partire dalla copertina; arriva nei momenti in cui ci sentiamo stupidamente invincibili, così come in quelli in cui siamo fragili o in tempi addirittura osceni (di cui la scrittrice dice qualcosa già nell’introduzione del suo volume, edito, in Italia, da Adelphi, «Leggere pericolosamente»).
Conosciamo bene la storia personale e intellettuale di Nafisi e sappiamo in quale orizzonte storico e geografico si colloca, ma non è questo il ragionamento che lei ci propone in queste ore. Dalle sue parole ci sembra di cogliere una linea guida: non esiste la Storia senza le singole storie e non possiamo difendere la libertà dei tempi attuali se prima non prendiamo a cuore le libertà di ciascuno, in questi tempi, nei tempi che ci hanno preceduto o nei tempi incerti, che piovono addosso ai bambini e ai ragazzi di oggi, in varie parti del mondo. Come darci sollievo senza essere ignavi? I libri ci aiutano a prendere coscienza: si può continuare anche a tacere, ma è difficilissimo farlo dopo aver preso coscienza, pagina dopo pagina, di una realtà polarizzata in apparenza, ma molto meno bipartita di quel che appare. Azar Nafisi ci parla da scrittrice, da lettrice e anche da madre e da nonna.
C’è un’esigenza di ricollegare i fili e le sue parole tornano indietro cronologicamente: «Quei giorni dell’infanzia erano pervasi da una sensazione di invulnerabilità. Ma all’età di quattordici anni scoprii che, in un batter d’occhio, mi si poteva privare di cose fino ad allora scontate: la casa, la famiglia, gli amici, il mio Paese. I miei genitori avevano deciso di mandarmi a studiare in Inghilterra. Insistevano che era per il mio bene, che avrei imparato a essere indipendente e avrei conosciuto nuove persone e nuovi mondi. La parola “nuovo” mi disorientava: non volevo niente di nuovo. Volevo ciò che credevo di possedere già: la mia vecchia casa, il mio vecchio mondo. Il giorno in cui lasciai l’Iran, per la prima volta, le persone presenti in aeroporto devono avermi trovato buffa, vedendomi correre in giro a piangere e gridare: “Non voglio partire!”». E, ovviamente, poi, la giovane Azar partì. Lo studio e i libri, però, hanno sempre fatto la differenza nella sua vita, così come in quella di suo padre. Aggiunge ancora la scrittrice: «Mentre studiavo in Inghilterra, i cattivi delle storie che leggevo uscirono dalle pagine dei libri e presero vita. Mio padre, che era stato il più giovane sindaco di Teheran e uno dei più popolari, fu arrestato. Restò in carcere per quattro anni. Lo tenevano rinchiuso nella biblioteca della prigione, accanto all’obitorio. Approfittò dell’insolita “cella” per leggere poeti, scrittori, pensatori e difensori dei diritti civili. Diceva che l’obitorio era lì a ricordargli la caducità e la precarietà dell’esistenza. I libri, invece, sono custodi della memoria, trasformano gli istanti fugaci della vita in momenti che dureranno molto più a lungo di noi».