chiave di sol

Politicamente corretto, l’infelice religione

livio costarella

Secondo Nick Cave è la nuova e infausta ortodossia morale della nostra epoca

«È la più infelice religione del mondo». Così Nick Cave ha definito qualche anno fa il politically correct, scagliandosi contro quella che, a suo dire, è la nuova e infausta ortodossia morale della nostra epoca. Nella sua newsletter «The Red Hand Files» il cantautore australiano ha stigmatizzato il politically correct e la cancel culture come «l’antitesi della compassione», fenomeni che rischiano di soffocare la creatività e ridurre l’arte a una sterile rincorsa al consenso. Un giudizio netto e condiviso da moltissimi colleghi, che trova eco anche nel panorama italiano, dove la libertà di scrivere testi provocatori o scomodi sembra oggi imbrigliata da un nuovo tipo di censura: non più quella imposta dalle istituzioni, ma quella - più subdola - dettata dall’opinione pubblica e amplificata dai social network.

Eppure, la censura nella musica non è una novità. La storia del cantautorato italiano è punteggiata di episodi che raccontano quanto la parola in musica abbia sempre dovuto fare i conti con divieti, tagli e compromessi. A partire da casi che oggi fanno sorridere, come La pansé di Renato Carosone (1953), brano da balera dal tono leggero, vietato dalla Rai perché colpevole di alludere ironicamente alla sensualità femminile, con versi come: «Che bella pansé che hai… me la dai? Me la dai?».

I riferimenti, anche solo velati, a sessualità e religione erano tabù assoluti in quegli anni. Nel 1960 la Fonit Cetra fu costretta a ritirare un 45 giri di Domenico Modugno: sul lato A c’era Libero, accusata di essere un inno al libertinaggio, mentre sul lato B Nuda fu bollata come oscena. Uno degli esempi più emblematici resta Dio è morto, scritta da Francesco Guccini nel 1965 e portata al successo dai Nomadi e da Caterina Caselli. Il brano fu bandito dalla Rai: la morte di Dio evocata nel testo - in scia al celebre aforisma nietzschiano - fu giudicata scandalosa e destabilizzante per l’ordine pubblico. Già il titolo completo era tutto un programma («Dio è morto. Se Dio muore è per tre giorni, poi risorge»): eppure alcuni versi di quel brano, ispirato al poema L’urlo di Allen Ginsberg, non hanno perso la loro incisività. «Perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, una politica che è solo far carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto. E un dio che è morto». Paradossalmente, fu proprio Radio Vaticana a “riabilitarlo” (pare piacesse anche a papa Paolo VI), trasmettendolo con l’interpretazione che la canzone fosse, in realtà, una riflessione sull’abisso morale della società moderna e sulla necessità di un nuovo slancio spirituale. 

Un altro episodio riguarda Lucio Dalla, che nel 1971 presentò a Sanremo 4/3/1943 (la storia di una ragazza madre che ha un figlio con un soldato straniero), originariamente intitolata Gesùbambino. Il titolo fu ritenuto inadatto e anche il testo dovette subire modifiche: i versi «E ancora adesso che bestemmio e bevo vino / per i ladri e le puttane mi chiamo Gesù Bambino», divennero più neutri, con «E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino / per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino».

A livello internazionale, i casi si moltiplicano. Negli anni ’60 Bob Dylan subì la censura della CBS per Talkin’ John Birch Paranoid Blues, troppo satirica verso l’establishment americano, mentre i Rolling Stones dovettero cambiare le parole di Let’s Spend the Night Together esibendola in tv, sostituendo “night” con “some time” per non urtare la morale pubblica.

Ma anche nel nuovo millennio la censura colpisce: Eminem ha visto più volte bandire le sue canzoni per contenuti omofobi, mentre Blurred Lines di Robin Thicke, successo planetario del 2013, è stata rimossa da molte playlist universitarie e radiofoniche per presunte allusioni alla cultura dello stupro. 

Se il politically correct ha indubbiamente portato maggiore attenzione alla sensibilità di certe categorie, dall’altro lato rischia di appiattire l’arte sulla soglia del “non detto”. Lo sintetizza bene sempre Nick Cave: «L’arte ha bisogno del rischio, del pericolo, della possibilità di fallire e di offendere. Senza tutto questo, resta solo intrattenimento inoffensivo».

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