Il saggio di Coviello

Puškin: il talismano dal cuore della Russia

Leonardo Petrocelli

Il segreto del talismano non è tanto nel nome, quanto nella «forma»

Ha un’immaginazione malinconica, Tatiana. La nutre l’ansia d’amore per Eugenio, il dandy che non ricambia e la rifiuta. Anzi, la sferza per aver squadernato il cuore in una lettera. Se ne pentirà, anni dopo, quando la ritroverà moglie di un principe. A quel punto sarà lui a scriverle, implorante, e lei - fedele al marito, cioè all’ordine delle cose - a rifiutarlo, pur desiderandolo ancora. Ma questa non è la fine, è piuttosto l’inizio di tutto.  «Da quando Tatiana e Eugenio non si amarono mai, pur amandosi sempre, tutti i controsensi vanno bene». Così, lo scambio epistolare tra i protagonisti dell’Onegin, romanzo in versi di Aleksandr Puškin (1799-1837), apre lo sguardo sugli abissi luminosi dell’umano. Chi si avvicina si brucia. O, almeno, si fa dimesso.

Quando Pëtr Il’ič Čajkovskij, da par suo, si cimentò nella messa in musica della scena della lettera, candidamente ammise: «Sarei soddisfatto e orgoglioso se la mia musica riuscisse a riflettere almeno una decima parte della bellezza contenuta nel poema». Si sentono tutti piccoli, di fronte a Puškin. E non potrebbe essere diversamente. I personaggi diventano paradigmi, statue di dei, i sentimenti si universalizzano, la Russia, gigantesca e insondabile, si fa anima altrettanto grande e indecifrabile. Il lettore è perduto anche perché l’incantesimo non si chiude nelle parole, ma evade, esonda. «Non fa mai il punto». Appigli non ce ne sono. L’unica possibilità è affidarsi a una guida che tenda il filo nei dedali del labirinto poetico.

Assolve a questo compito il prezioso volume Puškin e la «poetica» del talismano di Nicola Aldo Coviello, saggista e traduttore letterario. Controcorrente rispetto ai canoni contemporanei, il volume offre quasi 150 pagine di viaggio senza pause. Non ci sono capitoli né paragrafi né altre forme di agevolazione. Si corre a perdifiato sotto la luna dei poeti. Ma il racconto si tiene e soprattutto tiene dentro - per quanto umanamente possibile - tutto l’universo puskiniano con una bussola per segnare il nord dell’anima: il talismano, il suo talismano, quello cui dedicò due poesie nel 1825 e nel 1827. Un anello, un pegno d’amore, un dono di Elizaveta Vorontsova da cui Puškin non si separò mai e di cui Coviello ricostruisce il destino dopo la morte del suo proprietario. Di mano in mano saltò l’anello, da Zhukovsky a Turgenev a Tolstoj con la promessa che, quest’ultimo, lo passasse a un degno successore. L’anello, in realtà, non difende né dall’infermità né dalla tomba, spiega l’«incantatrice» che ne fa dono in un giorno triste. Invero, esso protegge «da nuove ferite del cuore / dal tradimento / dall’oblio». Dalle «voci che vagano nell’aria» e che si amplificano con effetti detonanti nelle anime più sensibili. Da cui la formula anaforica, ripetuta quattro volte, quasi ossessivamente: «Proteggimi, mio talismano». Sono indizi che avviano all’unica strada percorribile, quella della smaterializzazione. Il talismano non è un anello. «Quello invocato nei suoi versi - scrive Coviello - perde i tratti oggettuali e invita il poeta a battere strade sconosciute, a correre avventure, a trovare spazio per una gaiezza, per un’incoerenza». Il talismano è la sua poetica, anzi la sua poesia. Di più, è Puškin stesso, destinato a fecondare la letteratura che verrà (Gogol, Dostoevskij, Tolstoj) e a risuonare nelle note intessute dei suoi versi (Stravinskij, Rachmaninov). Passa di mano in mano, ripullulando nel genio altrui, sempre fedele a se stesso.

Il segreto del talismano non è tanto nel nome, quanto nella «forma», per così dire: i versi di Puškin non fanno mai rima con il suo tempo, ma appartengono ad un luogo che, poi, è più che altro uno stato dell’essere. È quella parte di mondo che «non s’intende con il senno», che sfugge allo «sguardo superbo del forestiero», scriveva il poeta Fedor Tjutcev. Allora come adesso. La Russia, anzi sono «tutte le Russie pagane, cristiane, musulmane, buddiste» a cantare nei versi di Puškin, tenendo per mano l’Oriente e l’Occidente. È Bucefalo, il destriero di Alessandro Magno, che cavalca dalla Grecia all’India in un tempo che pare lontanissimo, nebuloso, quasi omerico. Ma che rivive, ogni giorno, in quelle pagine di amori e incanti, vegliate dal talismano. Tacciono i cannoni e le censure. «E io avrò gloria finché sotto la luna / anche un solo poeta rimarrà».

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