ciak
Nel cinema aleggia il fantasma della guerra civile
Industria cinematografica e storia patria procedono sotto il segno di questa lotta fratricida che sfocia in conflitto interno a cielo aperto
Parafrasando una battuta celebre de La tregua di Primo Levi, “Guerra è sempre”, si potrebbe applicarla al rapporto che la cultura, la politica e la società statunitense hanno avuto con il fantasma diuturno e la ferita non rimarginabile della Guerra civile. E il cinema nella sua relativamente lunga storia ha ritualizzato, rinnovato e scandito questo campanello d’allarme della “Guerra civile sempre”, sin dal primo grande lungometraggio, La nascita di una nazione (1915) in cui appunto lo storico e pionieristico autore David Wark Griffith ha coniugato la grandiosità del cinema e la tragedia di questa “nascita” insanguinata del suo Paese.
Industria cinematografica e storia patria procedono sotto il segno di questa lotta fratricida che sfocia in
conflitto interno a cielo aperto, sia quando viene rievocata direttamente la Guerra civile, sia quando la si proietta in contesti presenti o prossimi venturi, comunque sia in chiave di ammonimento. E se Come vinsi la guerra (1926) del grandissimo e geometrico Buster Keaton è un capolavoro di titanismo e realismo lo si deve anche alla capacità di portare nel territorio comico la tragedia, poiché non esiste migliore forma della risata inquietante per razionalizzare ed elaborare così l’orrore delle armi di distruzione di massa, come in quella guerra cominciano a profilarsi, quindi lo sterminio insensato.
E ci sarà un motivo che cova ancora e investe l’attuale stato delle cose, americane e internazionali, se il concetto di “Guerra civile” transita alla lettera nel cinema made in Usa già dalla fine del secolo scorso
nell’esilarante, insuperabile e perciò spietato La seconda guerra civile americana (1997) del geniale Joe
Dante agli anni più recenti del nuovo secolo con la variante Marvel Cinematic Universe di Captain America – Civil War (2016) dei fortunati fratelli Anthony e Joe Russo e Civil War (2024) del furbo Alex Garland, che recepisce in chiave quasi pornografica la sequenza inspiegata di eccidi, in un delirio fine a sé stesso.
Ovunque si guardi, retrocedendo nella storia del conflitto meno metabolizzato della nazione americana, ecco che le immagini smettono di essere epiche o rassicuranti, tanto che anche il più grande poeta del western, John Ford, in Soldati a cavallo (1959) resta interdetto di fronte a una crudeltà ineludibile, priva di qualsiasi risarcimento morale o militaresco, nonostante la presenza fiera e inevitabilmente matura e cupa di John Wayne. Né è un caso che in Italia Sergio Leone consegni della Trilogia del dollaro il terzo, disilluso e più commosso capitolo con Il buono, il brutto il cattivo (1967), perché con quella sporca guerra d’oltreoceano non si scherza e, come ricorda il personaggio di Clint Eastwood nella scena dolente del ponte, mentre si sforza di alleviare la morte fisica e interiore all’orizzonte dell’ufficiale interpretato da Aldo Giuffrè, «Non ho mai visto tanta gente morire, tanto male».
Ma anche senza cercare lontano i segni imminenti della Guerra civile, diventata quasi sinonimo della
bandiera a stelle e strisce e di un paradigma antropologico odierno, ecco un capolavoro in questi giorni in sala, diretto non a caso da un regista iraniano in esilio e quindi smagato come Ali Abbasi, The Apprentice – Alle origini di Trump, ad analizzare con rigore clinico un comportamento a largo spettro di funesto e istituzionale, ergo grave narcisismo patologico.