giorno della memoria

E c'è la storia dell'ebreo Uhlfelder accolto e... perseguitato a Bari

La ricerca di Pasquale Trizio, tra Berlino e il Sud

di NICOLA SIGNORILE

Bari fu accogliente verso gli ebrei che fuggivano dal nazismo? Se pensiamo alle migliaia di profughi ospitati in città in attesa di imbarcarsi verso la Palestina o l’America (ben 9.723 solo nei primi sei mesi del 1944) dobbiamo rispondere di sì. Ma fra i grandi numeri della solidarietà si nascondono condotte rimosse di cinismo e sopraffazione. E sofferenze individuali che emergono solo per caso. Come la vicenda di Berthold Uhlfelder che ha vissuto a Bari i suoi ultimi dieci anni, dal 1936 al 1946, gli anni della persecuzione, ricostruita dallo storico Pasquale Bruno Trizio nel volume La storia dimenticata (Gelsorosso ed., pp. 128, euro 12).

Avvocato e consigliere della Corte di Appello a Berlino, appartenente ad una facoltosa famiglia di commercianti ebrei di Norimberga, Berthold Uhlfelder riuscì a salvarsi dalla Notte dei cristalli e poi dai campi di sterminio, in cui persero la vita almeno altri otto Uhlfelder, lasciando il suo Paese e la sua professione, per una «terra sconosciuta». Berthold, la sua giovane moglie Helene e il figlio Fritz arrivano a Bari viaggiando su una lussuosa DKW. Portano con sé i mobili, l’argenteria e depositano il patrimonio al Banco di Roma. Vanno ad abitare nella villa messa loro a disposizione dal conte Lonardo Romanazzi (proprio lì dove oggi c’è l’hotel Romanazzi Carducci). Sarà stato quasi certamente l’ambasciatore d’Italia a Berlino, il conte di Adelfia Bernardo Attolico, a mettere in contatto Uhlfelder e Romanazzi. Ma la fortuna volta presto le spalle alla famiglia berlinese che perderà tutto in poco tempo. La situazione precipita con l’internamento sulle montagne dell’Abruzzo nel giugno del 1940, ma le restrizioni delle leggi razziali erano iniziate ben prima. Berthold e Helene si convertono - inutilmente - alla religione cattolica e non passa che una settimana tra il battesimo e il matrimonio nel febbraio del 1938.

Dalla ricerca d’archivio che Pasquale Trizio conduce con accuratezza e affetto verso questo «amico inatteso» si ricava poco per volta la figura di un colto borghese e il suo tentativo di percorrere la stessa strada che aveva portato a Bari nei decenni precedenti abili imprenditori tedeschi – dai Lindemann ai Kühtz – ma senza lo stesso successo. L’attività commerciale, che egli deve curare dopo che il figlio Fritz è emigrato in Portogallo, langue e alla fine ci penserà un truffatore napoletano, un certo Lubrano, a derubarlo della merce. Gli Uhlfelder finiscono intanto sotto il controllo stretto degli agenti della questura e devono anche fare a meno della domestica, Angelina Sarcilosso. Sarà il federale fascista in persona, Giovanni Costantino, a ad esprimere parere negativo alla richiesta di «riassumere in servizio presso l’ebreo la donna cattolica». È lo stesso federale del Pnf Costantino – scopre Trizio fra le carte – che ha «negato per tutta la famiglia Uhlfelder la cosiddetta “discriminazione”, che avrebbe consentito a Berthold, a Helene e a Fritz di poter eludere i successivi provvedimenti limitativi previsti dal decreto di espulsione del 7 settembre 1938».

La puntualità con cui i fascisti, il prefetto e il questore applicano le disposizioni attestano l’adesione piena alla politica razziale. «Ciò fa ricadere – commenta Trizio nel suo libro – in egual misura la responsabilità degli eventi (…) anche sui cittadini italiani di “razza ariana” – come si usava dire in quel particolare momento storico – che hanno deliberatamente appoggiato anche con semplici azioni quotidiane, quelle direttive nefaste».

Il sospetto se non proprio l’avversione nei confronti degli ebrei continuerà anche molto dopo la caduta del fascismo. La requisizione di appartamenti sfitti in cui ospitare i profughi dai campi di concentramento trova i padroni di casa per nulla solidali. Lo si capisce da una comunicazione del questore che il 25 novembre 1946 informa il prefetto dello sgombero di un appartamento in via Abate Gimma 102 di cui il proprietario, l’avvocato Italo Fico, vuol tornare in possesso. Nella nota del questore si percepisce il clima avverso: l’appartamento sgomberato era stato adibito a sinagoga ma «durante le ore del giorno e anche la sera il locale era frequentato da un numero non indifferente di elementi eterogenei per affari poco chiari». Il documento allude addirittura a smercio di cocaina ma deve anche registrare che «negli ambienti ebraici della città si lamenta il comportamento dei carabinieri che ieri, al comando di un ufficiale dell’Esercito, nel prender possesso dell’appartamento, avrebbero scaraventato fuori la Bibbia e gli altri rituale. Pare che all’episodio si voglia dare, attraverso una intensa pubblicità di stampa e fotografica, una intonazione politica, traendo spunto dai sentimenti monarchici del Fico e dai suoi trascorsi».

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